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22.11.’63

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La Storia è fatta di eventi che fanno da spartiacque. Prima dell’11 settembre, la storia americana aveva un unico sussulto che divideva in due pezzi il tempo. Il 22 novembre del 1963. Il giorno in cui il presidente John Fitzgerald Kennedy fu assassinato a Dallas. Gli spari deviarono il regolare corso della Storia, che allora virò verso una direzione imprevedibile. Il trauma collettivo scosse il mondo, la ferita non ha mai più smesso di sanguinare. Nel corso della vita artistica, registi o grandi scrittori fissano quel punto vertiginoso per verificare la loro maturità creativa confrontandosi con uno degli eventi più raccontati della storia. In quel gorgo, collassano tensione politica e forze oscure. Collassano realtà e leggende. Scienza e dicerie. Cronaca e fiction. Dopo il romanzo Libra di Don DeLillo, scrivere dell’assassinio Kennedy sembrava impossibile. Perché DeLillo scrisse un libro perfetto, raccontando Oswald e quel mistero.

Invece, dopo Mailer, DeLillo e Ellroy, Stephen King è tornato a raccontare quel mito americano. Il libro si intitola 22.11.’63 (Sperling&Kupfer, pp.767, euro 23.90) ed è un volume monumentale, un testo di un’armonia narrativa sorprendente, una profezia rovesciata, una prova di forza definitiva che unge Stephen King con l’olio dei Grandi Romanzieri. Si possono fare moltissimi discorsi intorno a questo testo, che sarà amato dai lettori e glissato dalla critica letteraria.
D’altra parte, King è un immenso romanziere, ma non un vero scrittore. 22.11.’63 racconta la storia di Jake Epping (insegnante di inglese) che viene coinvolto da Al (gestore di una tavola calda) in una vicenda incredibile. Nel negozio di Al, c’è un varco nel quale si sprofonda nell’anno 1958. La missione che il vecchio Al affida a Jake, è di tornare indietro nel tempo, e fermare Oswald, l’uomo che avrebbe sparato a Kennedy. Dovrà tornare nel 1958 e vivere cinque anni nel passato. Ma perché King sceglie proprio quella data? Nel suo romanzo più importante, It, il male indefinito, che incarnava le paure dell’infanzia, visitava la cittadina di Derry, nel 1958, quando i bambini avevano la fantasia per combatterlo. Anni dopo, gli stessi bambini, dovevano tornare lì per combattere ancora contro quegli incubi. Il protagonista di 22.11.’63, sbarcato nel 1958, torna proprio a Derry. Visita i Barren, dove l’orrore di It si scatenava. Jake sfoglia i giornali d’epoca: c’è tutto. I lettori sanno bene che cosa vuol dire quel luogo. E ora sanno che quella vecchia storia dell’orrore è vera. O comunque, a venticinque anni da It, percepiscono la fisicità della letteratura. Prima di affrontare la storia con la esse maiuscola infatti, King manda il suo protagonista a verificare la tenuta della finzione narrativa. Prima di avvicinarsi all’omicidio Kennedy, King fa una lezione, e la fa attraverso una narrazione: un viaggio nel tempo che è un viaggio nella sua narrativa. Ci spiega che per fidarsi della letteratura, perché questa abbia il credito per occuparsi della Storia, dobbiamo sapere che questa è resistente, robusta, e che esiste così come esistono tutte le cose del passato.

A quel punto, verificato l’impatto della sua immaginazione, King affronta Kennedy. Prende di petto la più grande storia americana. Non si può raccontare la seconda metà del libro. Si deve però leggerla. Speranze, cospirazioni, dietrologia, immaginario, terrore e senso del sacro sono territorio della politica e della letteratura. L’omicidio Kennedy è un romanzo. La finzione letteraria è verissima.

Questo articolo è uscito oggi per «Il riformista»


Il postmodernismo nelle narrazioni di Wallace e King

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Questo articolo è uscito nell’inserto «Ragioni» del «Riformista».

David Foster Wallace e Stephen King hanno scritto un unico grande romanzo. Uno straordinario ritratto dell’America che permette di fare il punto sullo stato attuale della letteratura americana. In Italia, i loro due ultimi libri sono usciti insieme e questa semplice coincidenza svela però il legame profondo tra i due testi. Il re pallido di Wallace (Einaudi, pp. 714) e 22.11.’63 di King (Sperling&Kupfer, pp. 780) sono perfettamente complementari. Uno è lo stile, l’altro è la trama. Uno è l’esempio perfetto di letteratura sperimentale, l’altro è l’incarnazione della letteratura “di genere”. Uno è il trionfo del virtuosismo esibito per l’acclamazione dei critici, l’altro è il concentrato di intrattenimento che i lettori sognano da un plot. Quello di Wallace è un romanzo incompiuto, con la trama irrisolta (non solo perché è incompiuto), mentre l’altro è una lezione sulla costruzione di un impeccabile intreccio lineare. Wallace usa l’espediente meta-letterario per mostrare che la letteratura è finzione, King usa la meta-letteratura per mostrare che fuori dal cerchio magico della letteratura c’è solo altra letteratura.

Sono, evidentemente, le due facce del romanzo americano. Il protagonista del libro di King trova un varco temporale e viaggia nel passato. Torna nel 1958 con la missione di fermare Oswald, l’uomo che nel giro di cinque anni avrebbe assassinato il presidente Kennedy.

Il re pallido è un testo tremendamente discontinuo, pieno di biforcazioni e, come molti testi di Wallace, vortica tra digressioni e malinconia, sprofondando nei precipizi del cuore e fendendo la marea nera che a volte dilaga nella mente umana. Il romanzo di Wallace, stando a ciò che afferma all’interno delle stesse pagine del romanzo, sarebbe «più un libro di memorie che una storia inventata». E infatti, il libro ruota intorno al periodo che Wallace trascorse all’Agenzia delle Entrate di Peoria, nell’Illinois, lavorando per il Centro controlli delle tasse. Racconta dunque «uno dei lavori impiegatizi più noiosi e monotoni d’America». Wallace ingaggia una sfida con se stesso: narrare qualcosa di «spettacolarmente noioso». Ma qual è il vero tema del libro? È davvero la noia? C’è un passaggio che fornisce una chiave di lettura: «Per me, almeno a posteriori, la domanda veramente interessante è perché la noia si dimostri un impedimento così efficace all’attenzione. Perché ci sottraiamo alla noia. Forse perché la noia è intrinsecamente dolorosa». L’interesse di Wallace è la condizione umana, la cognizione della fragilità: «La nostra piccolezza, la nostra insignificanza e natura mortale, mia e vostra, la cosa che tutto il tempo cerchiamo di non pensare direttamente, che siamo minuscoli e alla mercé di grandi forze e che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà più e la nostra infanzia è finita e con lei l’adolescenza e il vigore della gioventù». Ecco la spina nel fianco della sua narrativa. Ecco ciò che striscia in tutti i suoi racconti: una sconfinata amarezza mista al febbricitante desiderio di un’illusione, sentimenti che palpitavano e si alternavano già in Infinite Jest, e che pulsano dietro ad ogni pagina wallaciana. È l’inquietudine dell’uomo che cerca la salvezza. È la lotta per resistere all’oblio. Se la letteratura salvasse, Wallace oggi sarebbe vivo. Ma la letteratura, che opera tanti miracoli, non salva.

Il re pallido è un libro ai limiti dell’illeggibilità (ma d’altronde è meravigliosamente illeggibile anche l’Ulisse di Joyce). Wallace è l’ultimo interprete di una letteratura americana consapevole. Viene dopo scrittori enormi e faticosi, impregnati di teoria, che rispondono ai nomi di John Barth (il maestro da cui Wallace prese le distanze in A occidente l’impero volge il suo corso), Donald Barthelme e Thomas Pynchon. Gli stessi autori che hanno forgiato Mark Lyner o George Saunders. Alcune pagine del Re pallido raggiungono punte di lirismo letterario sublimi. Wallace infatti è sempre sublime quando si lascia rapire da crepuscoli strazianti, quando la nostalgia iniettata nella pagina raggiunge toni lancinanti e tutta la narrazione è sommersa dall’odore dei pini, dal ronzio delle falciatrici, o quando è rischiarata da serate limpide in cui si riesce a leggere alla luce della brace. Altrove, il romanzo ristagna. Il viaggio nella noia si fa noiosissimo. Il lettore, legato e imbavagliato nella mente di Wallace, è costretto a seguirlo dove vuole lui: che siano situazioni comiche, psicologie imbarazzanti, derive enciclopediche, o lente progressioni che vivisezionano ininfluenti brandelli di realtà.

Il romanzo di King e quello di Wallace rappresentano di fatto i due sbocchi della letteratura americana degli ultimi cinquant’anni. Sono i due esiti della migliore letteratura postmoderna. Fredric Jameson, nel testo che gettò luce sulla cultura postmoderna, diceva che per il postmoderno la Storia è ridotta a simulacri: «la cinquantezza degli anni Cinquanta, la sessantezza degli anni Sessanta». Nel romanzo di King, il passato è evocato solo attraverso l’odore del talco, la brillantina, il fumo di sigarette, gli hula-hop, i ventilatori accesi. Il viaggio nel tempo di Wallace lo porta invece negli anni Ottanta. Tutto è precisissimo eppure la Storia può dissolversi tra le dita: «Mi sembra di ricordare che nel 1976 mio padre avesse predetto espressamente la presidenza di Ronald Reagan inviando addirittura una donazione per la sua campagna anche se, a ripensarci, mi pare che Reagan non fosse nemmeno in lizza nel ‘76».  Uno racconta l’evento più importante della storia americana, l’assassinio Kennedy, l’altro si perde nell’anonimato della provincia per raccontare pallidi sovrani della burocrazia, eroi nascosti nel tedio del quotidiano.

Non è un caso, comunque, che leggendo questi due romanzi, si intraveda in controluce, dietro entrambi, il maestro del postmoderno americano: Don DeLillo. La sua letteratura autorizza e permette entrambe le prove. Dietro l’omicidio Kennedy di King si sente l’eco di Libra, dietro la trama frammentata del Re pallido c’è l’esperienza di Underworld. Nel volume appena pubblicato, La letteratura americana dal 1900 a oggi (Einaudi) – un dizionario per autori a cura di Luca Briasco e Mattia Carratello – si dà una definizione molto precisa di DeLillo: «L’opera di Don DeLillo si configura come un monumentale affresco dell’America contemporanea, con i suoi linguaggi, miti, rituali, misteri, scevro tuttavia del disimpegno e della mancanza di profondità spesso associati al postmodernismo». Esiste un postmoderno buono. Ci sono scrittori postmoderni tremendamente profondi, che mettono al centro la coscienza individuale inquadrandola nel contesto delle trasformazioni storiche, culturali e dell’immaginario. Esiste, in letteratura, un postmoderno virtuoso, d’ampio respiro, che perfora la realtà, o almeno la insegue. I padri di King sono Edgar Allan Poe, H.P.Lovecraft, Richard Matheson.

Il pubblico di lettori, almeno in Italia, è spaccato in due. I lettori di Wallace non leggono King. I lettori di King non leggono Wallace. Sbagliano entrambi. Nel libro di King non si troverà mai una frase come: «La sera dal parcheggio della roulotte le colline prendevano un bagliore arancio sporco e i suoni degli alberi viventi che esplodevano al calore dei falò giungevano forti, e il rumore degli aerei che aravano l’aria ondulata riversando grosse lingue di talco». Perché questa è la sensibilità di Wallace. E nei libri di Wallace non leggeremo mai sentenze lapidarie come: «C’era qualcosa di sbagliato in quella città». Perché questo è il mondo visto dagli occhi di King.

Il fatto è che Wallace e King vanno letti insieme. Per capire l’America e la letteratura contemporanea è necessario passare per tutti e due gli autori e leggere quest’unico grande romanzo che hanno scritto insieme, senza saperlo.

C’è una frase che torna spesso in 22. 11. ’63 «La vita è un lancio di monetina». Il caso ha unito questi due libri. La sorte ha voluto intrecciare il destino di due degli autori più letti e amati della narrativa americana contemporanea. Due libri che il “New York Times” ha appena inserito tra i migliori libri del 2011. Il caso ha squarciato una verità critica. Autori diversi e stili opposti vanno osservati insieme. La letteratura è un tentativo raffinatissimo per conoscere il mondo e i sentimenti degli esseri umani. Non è il luogo per tifoserie, è il luogo dell’ascolto. I lettori sono una comunità. Gli scrittori un’orchestra.

«What, don’t you read?» I libri nelle serie televisive

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Pubblichiamo un articolo di Alessandro Romeo, uscito su «inutile», sui libri nelle serie tv.

Billy Parrott lavora alla Battery Park Library di New York, nella sezione Arti figurative. È uno di quei bibliotecari bravi, che amano a dismisura il proprio mestiere e che, fosse per loro, catalogherebbero anche gli appunti che gli studenti lasciano sul tavolo a fine giornata. Nella vita di tutti i giorni ama l’ordine, la completezza, i libri e Mad Men; quattro cose che nel settembre 2010 sono confluite in un’unica, semplice idea: utilizzare il blog ufficiale della Battery Park Library per compilare con l’aiuto dei lettori l’elenco di tutti i libri che compaiono nella sua serie tv preferita.

L’iniziativa ha avuto un successo immediato, i lettori hanno dato una mano e gli utenti della biblioteca hanno cominciato a chiedere i libri «di Mad Men». Il risultato è che da due anni per avere in prestito Il gruppo di Mary McCarthy o Il meglio della vita di Rona Jaffe bisogna prenotarsi e attendere per mesi.

Il rapporto tra libri e serie tv è sufficientemente profondo da innescare discussioni che vanno oltre il semplice gusto per la citazione. E questo va bene. A un certo punto della storia televisiva recente, però, qualcuno ha ritenuto necessario accostare in senso quasi agonistico l’epoca d’oro delle serie televisive (questa, almeno finora) a quella che tradizionalmente viene considerata l’epoca d’oro del romanzo letterario (l’Ottocento). Questo ha generato una questione di primato tra serie e letteratura, liquidata tenendo conto solo delle similitudini tra i due mondi e saltando a pié pari le differenze. Che il piatto della bilancia pesi incontrovertibilmente dalla parte di queste ultime è dimostrato dal fatto che le riduzioni televisive di indiscussi capolavori letterari non diventano automaticamente indiscussi capolavori televisivi. La narrazione televisiva e quella su carta funzionano in maniera così diversa che c’è da chiedersi fino a che punto sia lecito farne un confronto qualitativo e dove invece non sia meglio limitarsi a individuarne i tratti comuni e le influenze reciproche.

Tra le serie di maggior successo Mad Men è, insieme a Lost, quella con il più alto tasso di citazioni letterarie. L’intera seconda stagione ruota attorno a Meditation in an emergency, la raccolta di poesie di Frank O’Hara, che Don Draper invierà ad Anna, l’unica persona che può dire di conoscerlo davvero, con la dedica: «Mi ha fatto pensare a te».

O’Hara era un personaggio interessante della New York degli anni Cinquanta. Dopo aver prestato servizio durante la Seconda Guerra Mondiale come addetto al sonar nel cacciatorpediniere Uss Nicholas, si era sistemato a New York, lavorando all’accoglienza del Museum of Modern Art. Nel tempo libero dipingeva e scriveva molto, e grazie al suo talento e al suo carattere gioviale, riuscì a inserirsi facilmente nella vita mondana newyorkese, conquistandosi man mano credibilità sia come pittore che come scrittore. Morì ad appena quarant’anni investito da un dune buggy sul lungomare di Fire Island. O’Hara detestava la metrica, scriveva di qualunque cosa e gli piaceva chiamare i suoi lavori «I do this I do that poems». Una leggerezza e una vitalità che, in effetti, assomigliano molto a quelli di Anna Draper.

In una serie che racconta la vita dei pubblicitari di Madison avenue non può mancare il bestseller di David Ogilvy, Confessioni di un pubblicitario. Ogilvy è stato uno dei più grandi copywriter del secolo scorso e nel 1963, quando il libro venne pubblicato, era già una leggenda. Appena ventenne, abbandonati gli studi, aveva iniziato a girare il mondo lavorando come cameriere, assistente sociale e venditore porta a porta di stufe. Quest’ultima attività, visti i successi ottenuti, l’aveva introdotto al mondo della pubblicità, da cui si era poi allontanato per fare il coltivatore di tabacco in una comunità amish in Pennsylvania. Abbandonato anche questo progetto, era ritornato sui suoi passi e aveva aperto l’agenzia pubblicitaria che ancora oggi porta il suo nome e conta ben 450 sedi in tutto il mondo. Se state cercando un motivo per leggere un libro del genere, concentratevi su questa frase: «Il consumatore non è uno stupido. È vostra moglie». Con quella vena neanche tanto sottile di maschilismo e quel miscuglio dato per scontato di lavoro e vita privata è una frase che riesce a riassumere l’intero universo di Don Draper.

Per una serie come Mad Men, che fa della ricostruzione storica il proprio centro nevralgico, un libro come L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence, che compare nella prima stagione, può essere essenziale per scoprire fino a che punto il sesso nei libri (e in particolare il sesso extraconiugale tra una donna della borghesia colta scozzese e un guardiacaccia) all’epoca eccitasse e scandalizzasse interi eserciti di segretarie.

Mad Men racconta una duplice crisi: quella di un’epoca che sta per essere definitivamente spazzata via dalla controcultura degli anni Sessanta e quella personale del suo protagonista. Nella lista compilata da Billy Parrott non mancano i libri che affrontano questo tema, da The History of the decline and fall of the Roman Empire di Edward Gibbon, alla raccolta attorno alla crisi del ’29 Babilonia rivisitata e altri racconti di Fitzgerald, al romanzo L’urlo e il furore di Faulkner, che racconta la decadenza di una ricca famiglia bianca del sud degli Stati Uniti.

Se non fosse abbastanza evidente come Billy Parrott, il nostro bibliotecario preferito, con la sua Mad Men reading list si sia pericolosamente avvicinato al crinale del fanatismo, sappiate che sulla scorta del successo di quella ne ha progettata un’altra, per ragazzi, dedicata ai libri di Sally Draper, la figlia di Don. Nel frattempo il post della Mad Men reading list è stato riempito con i fotogrammi delle inquadrature dei libri e con dei consigli di lettura a tema, pensati per gli appassionati della serie, tra cui spiccano ad esempio alcuni libri di Richard Yates, lo scrittore che più di tutti è riuscito a raccontare la disperazione privata, famigliare e middle class, dell’America della Distensione nella sua variante molto poco cool; la stessa America che vedra nascere e, qualche decade più tardi, crollare i protagonisti dei racconti di Carver, e che condivide con Mad Men un legame intimo, quasi fraterno, per quanto mai esplicitamente dichiarato.

I blogger che hanno ricostruito l’intera biblioteca di Lost non sono da meno. I libri citati all’interno della serie sono moltissimi, per lo più passati tra le mani di Sawyer e di Ben o raccolti nelle biblioteche delle varie stazioni di sorveglianza dell’isola.

Scorrendo la lista bisogna fermarsi su tre libri imprescindibili. Il primo è Alice nel paese delle meraviglie di Carroll. I riferimenti sono abbastanza espliciti e vanno dai titoli originali di almeno un paio di puntate (White rabbit, nella prima stagione, e Through the Looking-glass, nella terza), alla comparsa del libro vero e proprio tra le mani di Jack come lettura per il piccolo David.

Il secondo libro è Il nostro comune amico di Charles Dickens. Nella serie il libro è sempre associato a Desmond, che se lo porta dietro tra un flashback e l’altro con l’idea che quello sarà l’ultimo libro che leggerà prima di morire; ed è anche il libro grazie al quale la sua storia con Peggy prenderà una piega piuttosto che un’altra. Il nostro comune amico racconta la storia d’amore tra John e Bella, complicata dalla presenza di un’eredità paterna che condiziona le loro vite. Il parallelo con la storia di Desmond è evidente ma qui quello che interessa è il legame con un certo modo di raccontare le storie, che piace tanto a Damon Lindelof e Carlton Cuse, due degli sceneggiatori di Lost assoldati da J.J. Abrams, e che si basa sulla scoperta che i personaggi, in qualche modo, si sono tutti già incontrati.

Un altro libro collegato a Desmond è Il terzo poliziotto di Flann O’Brien. Compare nella libreria del Cigno, il bunker dove Desmond è rinchiuso da anni, e racconta la storia di uno studioso il cui unico interesse è continuare l’approfondimento delle opere di De Selby, uno scienziato-filosofo che in realtà non è mai esistito. Il libro è un lungo susseguirsi di paradossi, tra cui quello dello specchio, che si lega piuttosto bene a ciò che avviene nell’ultima stagione di Lost. Il paradosso consiste in questo: la luce ha una velocità finita e determinata; dal momento in cui noi ci posizioniamo davanti a uno specchio al momento in cui la nostra immagine arriva intercorre un lasso di tempo, che noi non percepiamo ma che esiste. Questo vuol dire che la nostra immagine riflessa è sempre un po’ più giovane di noi. Posizionandoci tra due specchi e immaginando di essere dotati di una lente che permette di vedere fino in fondo al “tunnel” che si viene a creare quando due specchi sono disposti uno di fronte all’altro, potremmo vedere la nostra immagine ringiovanire man mano che noi invecchiamo.

Se c’è un autore che fa letteralmente impazzire gli sceneggiatori di Lost, al punto da dedicargli, nella puntata che apre la terza stagione, una litigata tra i membri del book club degli «altri», è Stephen King. Il libro che dà via alla sfuriata di Juliet è Carrie e racconta la storia di una ragazza che utilizza i suoi poteri telecinetici per vendicarsi dei terribili compagni di scuola e della madre che l’ha tenuta sempre segregata in casa. Ad essere importante non è tanto il libro, ma il suo autore. King è lo scrittore popular per eccellenza e, in quanto tale, è una vita che raccoglie regolarmente il fastidio stizzito della critica più rigida, disposta a tutto pur di non concedere ai suoi libri, pieni di horror e di fantascienza, lo status di letteratura. Se c’è una cosa che King ha insegnato con i suoi libri è che di queste cose, quando i tuoi lettori sono contenti, è bene fregarsene. Non è difficile indovinare il motivo di tanta stima da parte degli sceneggiatori di Lost.

Per quanto riguarda i libri, la mano di J. J. Abrams si fa sentire anche in Fringe, di cui è ideatore, dove la trama ruota attorno a un libro fondamentale. Si tratta di Zerstörug durch fortschritte der technologie (o più semplicemente, ZFT), un libro fittizio che nella serie è stato scritto da un autore anonimo e che Peter Bishop recupera grazie a un amico collezionista, in cui vengono descritte per filo e per segno le teorie sulle realtà parallele. Sulla stessa lunghezza d’onda, in chiave decisamente mistica, viene citato un altro libro, questa volta vero, con un titolo che in realtà non è ironico come sembra: Se incontri Budda per strada, uccidilo. L’autore è Sheldon B. Kopp e le scritte sulla copertina dell’edizione americana recitano: «Nessun significato che proviene dall’esterno è reale. Il Budda è dentro di noi. Basta solo riconoscerlo». Quindi, se lo becchi in giro, fallo fuori.

La sensazione, al di là di ogni riflessione narratologica, di ogni periodizzazione storico letteraria, di ogni implicazione sociologica, al di là di tutto, è che dietro l’accostamento tra il mondo delle serie e quello dei feuilleton a puntate dell’Ottocento non ci sia davvero altro che la scoperta entusiastica e delirante del fatto che in entrambi i casi si tratti di opere narrative divise, appunto, in puntate.

Eppure, a fronte di questo elemento tecnico arricchito dall’entusiasmo comune e condiviso (più elitario di quando non si voglia far credere quello dei romanzi, meno popular di quanto non si racconti in giro quello delle serie tv) molte cose non tornano. Non è chiaro ad esempio per quale motivo la tv, che genera numeri, soldi, glamour, memoria collettiva, fama e leggenda nemmeno lontanamente paragonabili a quelli che genera la letteratura, dovrebbe fare a gara con questa; o, al contrario, il motivo per cui la letteratura che possiede quello che la tv (purtroppo) non riesce quasi mai a possedere (la dignità, nel senso di aura percepita) dovrebbe mettersi a fare gara con quella; ma soprattutto non torna il motivo per cui fare in generale a gara, quando basta guardare un paio di puntate di una serie come Mad Men per capire come gli autori che hanno creato la serie, sceneggiandola e girandola, non fanno altro che omaggiare ai limiti della sottomissione la letteratura e i libri.

Il rapporto tra serie tv e libri, che va dalla citazione nascosta al primo piano della copertina, non ha a che vedere con la presunta dignità letteraria di cui le prime andrebbero in cerca, ma con una questione più specifica: la cura maniacale per il dettaglio, a sua volta collegata alla gigantesca credibilità che le serie si sono guadagnate sul campo negli ultimi anni. Fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile contare su un pubblico così attento a un prodotto seriale televisivo e disposto chessò a leggere un post come quello in cui Billy Parrott (sempre lui!) ricostruisce la lunga serie di ricerche che gli hanno permesso di individuare Twenty-one balloons di Pène Du Bois tra le braccia di Sally Draper, a partire da un’immagine contenuta all’interno del libro.

Vero, la metatestualità è solo un aspetto, probabilmente secondario, del discorso più ampio sulla presunta legittimazione “letteraria”. Ma considerare questa metatestualità come un fenomeno omogeneo e univoco, caratterizzato da tentativi più o meno maldestri di legittimazione dei prodotti televisivi significa, paradossalmente, banalizzare il fenomeno. Al contrario, limitarsi a stimare la funzionalità che queste citazioni hanno all’interno di ogni singola narrazione, permette di riportare dentro al recinto l’intero discorso, dribblando i confronti privi di senso.

In Mad Men la citazione letteraria è collegata all’ossessione per la ricostruzione storica degli ambienti in cui si muovono i personaggi, dove in Lost assomiglia molto a un gioco metastuale condotto da persone (gli sceneggiatori) che sulla passione per la narrativa si sono costruiti un mestiere, e dove in una serie di più basso profilo come Bored to death non fa altro che assecondare il meraviglioso cazzeggio «lirico» che contraddistingue la serie e buona parte della produzione letteraria di Jonathan Ames.

Tornando alle citazioni, la «caccia al tesoro» è divertente e contribuisce all’illusione che le serie che tanto ci piacciono possano prolungarsi in qualche modo nella realtà e nelle nostre vite, che per quanto stupido è un aspetto della quotidianità – più significativo di qualsiasi dibattito teorico – che chi ama o ha amato alcune di queste serie si trova ad affrontare.

Lo scaffale ideale

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Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. (Immagine: lo “scaffale ideale” di Jennifer Egan.)

Cosa pensate di trovare nello scaffale dei libri più amati da Patti Smith? E in quello di James Franco? Di Jennifer Egan? Miranda July? Jonathan Lethem? David Sedaris? Sfogliate My Ideal Bookshelf (Little, Brown and Company, $ 24,99) e ogni risposta vi verrà data. Raccolti online nel sito idealbookshelf.com e poi pubblicati in un meraviglioso volume cartonato di 226 pagine, ecco gli “scaffali ideali” di più di un centinaio di varie celebrità. Sono prevalentemente scrittori (in buona compagnia dei sopra citati ci sono Rick Moody, Michael Chabon, Vendela Vida, Junot Díaz, Stephenie Meyer, George Saunders, Daniel Alarcón e Chuck Klosterman), ma anche musicisti (Kim Gordon, Thurston Moore, Rosanne Cash e Stephen Merritt), registi (Judd Apatow, Mira Nair), illustratori (Maira Kalman, Christoph Niemann), giornalisti (il critico musicale Alex Ross e il direttore della Paris Review Lorin Stein), skater (Tony Hawk), ballerini (Adrian Danchig-Waring e Pontus Lidberg), cuochi (Hugh Acheson, Dan Barber, Gabrielle Hamilton) e curatori di musei (Paola Antonelli di design per il MoMA). Queste alcune delle celebrità contenute nel volume, ognuna disegnata in forma di scaffale con sopra i rispettivi libri preferiti.

I bellissimi disegni (delle coste, scelte nostalgicamente perché è ciò che di un libro è andato perduto nell’era digitale) sono dell’artista e designer Jane Mount (@janemount) mentre l’idea e curatela del libro è di Thessaly La Force (@Thessaly), blogger della Paris Review, che a ognuna delle tavole ha affiancato un breve testo scritto in prima persona dai più di cento intervistati. Le coste disegnate sono quelle dei “libri a cui sono più legati, che definiscono i loro sogni e le ambizioni e che in molti casi li hanno aiutati a trovare una strada nel mondo”, scrive La Force introducendo il progetto. In breve, i più amati di altri, i preferiti tra i preferiti, i libri ideali.

Si scopre così da dove arriva la coralità dei romanzi di Jennifer Egan, che ispirata da Middlemarch di George Eliot dichiara di scrivere per “rendere giustizia alla complessità che ci circonda”. O che Patti Smith, bambina, si sedeva ai piedi della madre e assorta la osservava mentre leggeva, cercando di capire cosa avessero quei libri da tenerla così assorta. Poi imparò a leggere. E non smise più.

Operazione interessante è anche provare a scorrere il libro contando le ricorrenze per constatare che sì, per fortuna ci sono anche i nostri prediletti (Flannery O’Connor otto volte, Scott Fitzgerald sei, Roberto Bolaño e Harper Lee tre, Miguel de Cervantes, Truman Capote, Emily Dickinson, John Updike, Cormac McCarthy e Stephen King una). E poi, partendo da lì, soffermarsi su chi li ha scelti e decidere cosa e chi è arrivato il momento di leggere.

La genialità del progetto sta del resto in una frase della prefazione, che dice: “Quello che scegli oggi potrebbe essere completamente diverso dai libri che metteresti nello scaffale di domani – ma qui sta la bellezza dell’esercizio. Èun’istantanea di te in un preciso momento”. Già: qui e ora.

(Immagine: lo “scaffale ideale di Patti Smith.)

Perché ormai siamo circondati da tutti i racconti

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Questo pezzo è uscito in versione ridotta su la Repubblica. (Immagine: Nick Gentry.)

In Continuità dei parchi Julio Cortázar immagina un uomo che a fine giornata si siede sulla sua poltrona preferita e riprende la lettura del romanzo che da tempo lo coinvolge. La scena che gli scorre davanti descrive i movimenti furtivi di qualcuno che sta per commettere un delitto. Tramite una rotazione di trecentosessanta gradi – un cataclisma prospettico – il lettore del racconto di Cortázar segue il lettore del romanzo che a sua volta segue gli ultimi passi di un criminale che attraversando le stanze di una casa armato di coltello raggiunge alle spalle un uomo seduto in poltrona.

Lo scrittore argentino chiude il racconto così, sospendendo – il lettore in procinto di venire assassinato dal personaggio della storia che ha davanti agli occhi.

Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet di Frank Rose (Codice Edizioni, traduzione di Antonello Guerrera) riflette su questo naturalissimo paradosso: com’è possibile che le storie – quelle che leggiamo, che guardiamo al cinema e in tv o che seguiamo (e contribuiamo a costruire) in rete – siano in grado di girare intorno alla nostra poltrona e collocarsi non solo alle nostre spalle ma tutt’intorno a noi?

In effetti le storie non se ne stanno più al loro posto. Non le troviamo solo nei libri, sullo schermo, in un dvd o in un teatro. Non sono più oggetti che, consumati, riponiamo su uno scaffale, così come non sono più luoghi dai quali, conclusa la narrazione, possiamo andare via. In sostanza le storie non fanno più parte di un’esperienza separabile e perimetrabile. Come se dallo stato solido fossero passate prima a quello liquido, dilagando in ogni direzione, per divenire poi gassose, sostanze che un semplice respiro trasloca all’interno dei nostri corpi.

Attraverso incontri con registi (da James Cameron a David Lynch), creatori di serie tv (Damon Lindelof di Lost), ideatori e sviluppatori di videogame, Rose chiarisce un punto: se le storie sono ciò che ci nutre questo dipende dal fatto che tendiamo a leggere il mondo in relazione a un senso. Come in Cosmo di Gombrowicz, dove ogni fenomeno è percepito quale indizio di qualcos’altro, nel nostro quotidiano cerchiamo di non abbandonare nulla né al caso né al vuoto pretendendo invece che tutto ciò che c’è sia in grado di significare.

Cosa succede però nel momento in cui questo spazio di significazione non è più circoscritto, appunto, a una storia canonica e tracima investendo tutt’intera la nostra percezione del mondo?

Rose racconta il caso di Jordan Weisman, inventore degli alternate reality games, esperienze in cui storie e gioco si mescolano sul web. Vale a dire che si compone una narrazione per poi decostruirla lasciando agli internauti il compito di rimetterne insieme i pezzi. L’ambizione era quella di «raccontare una storia che s’insinuasse nella vita delle persone, che inviasse loro delle e-mail, che facesse squillare il telefono quando erano al lavoro o trasmettesse messaggi segreti attraverso le suonerie». Esistenza reale e intrattenimento finzionale dovevano diventare indistinguibili.

E forse dovevano è fin troppo prudente: il dissolversi dei confini tra realtà e finzione si è infatti già in gran parte compiuto.

In Holy Motors di Leos Carax – speriamo presto anche nelle sale italiane – assistiamo a una rocambolesca tragicomica via crucis in cui ciò che all’inizio riteniamo travestimento, dunque finzione, si dimostra qualcosa di infinito e incoercibile. Non si tratta di una scelta quanto di una condizione strutturale: la finzione ci ha definitivamente presi (o forse, più esattamente, rivelati) in ostaggio.

Al centro di questa nuova condizione – e Rose lo nota acutamente – c’è il destino del controllo.

Nel giugno del 2009, quando Mad Men era alla vigilia della sua terza stagione, qualcuno che si firma Betty Draper – nella serie la moglie del protagonista Don – invia un messaggio tramite twitter. I produttori della serie nel giro di poco si rendono conto che a impersonare Betty e altri personaggi della serie sono privati cittadini che autonomamente, ma non per questo in modo arbitrario, danno voce a Don, a Betty, a Peggy Olson e a Roger Sterling.

In sostanza (e giocando con la meravigliosa intuizione di Stephen King), non soltanto Misery «non deve morire» ma la sua sorte può essere determinata da chi a quella storia e a quel personaggio si è appassionato.

Se dunque, come ricorda Rose, da un lato verifichiamo che «i media digitali hanno creato una crisi di autorialità» perché «quando il pubblico è libero di entrare in un mondo fittizio e influenzarne il corso degli eventi, l’intera struttura dei mass media del ventesimo secolo comincia a sgretolarsi», dall’altro dobbiamo constatare che l’interazione autore-lettori (di fatto riformulabile in autore-coautori) esisteva già al tempo di Dickens, quando lo scrittore inglese era nelle condizioni di modificare la sua narrazione in base alle reazioni dei suoi lettori (su temi analoghi è utilissima la lettura di #costruirestorie: nuovi linguaggi e nuove pratiche di narrazione, l’ebook realizzato dai ragazzi di 404 File Not Found e scaricabile gratuitamente dal loro blog).

Attenzione dunque quando ci sediamo sulla nostra poltrona. Le storie che riceviamo attraverso una specifica tecnologia – dal libro all’Ipad – non stanno esclusivamente davanti a noi. Sono alle nostre spalle, di fianco, sopra la nostra testa, immerse nel nostro corpo. La possibilità di un controllo tradizionale è venuta meno, non resta quindi che una disponibilità complice. Perché se, secondo Philip Dick, «la finzione imita la realtà e la realtà imita la finzione», avere paura non serve a niente. È meglio spalancarsi all’ibridazione: scoprire che da sempre il legame tra realtà e finzione ha una natura meticcia. Ed è indispensabile ricordarsi che la ricostruzione del significato (o meglio la sua invenzione) procede per vie tortuose. Come il protagonista di Reality di Matteo Garrone anche noi penetriamo a forza nello spazio della finzione per contemplare sorridenti la stellata notturna del senso.

Ricordando David Foster Wallace / 2

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Questo articolo è uscito sulla rivista Tradurre. (Foto: Giovanni Giovannetti)

di Norman Gobetti

Acqua in bocca, ovvero Tradurre l’infinito. David Foster Wallace in Italia

La vita è come il tennis vince chi serve meglio
Infinite Jest
(traduzione di Edoardo Nesi, Grazia Giua e Annalisa Villoresi, p. 1144)

Moriva, il 16 dicembre 1991, Pier Vittorio Tondelli. Prolifico operatore culturale, oltre che amatissimo scrittore, Tondelli aveva fondato nel 1990, insieme ad Alain Elkann ed Elisabetta Rasy, il quadrimestrale di letteratura «Panta». Dopo la morte di Tondelli, nel comitato editoriale di «Panta» subentrò lo scrittore statunitense Jay McInerney, che nel 1993 curò un numero dedicato ai nuovi narratori americani. Il volume presentava i racconti di quindici autori all’epoca quasi tutti inediti in Italia, fra cui Jennifer Egan, Jeff Eugenides, Mark Leyner, Donna Tartt e William T. Vollmann, tradotti da scrittori italiani come Michele Mari, Sandra Petrignani, Claudio Piersanti, Sandro Veronesi e Valeria Viganò. Fra gli altri c’era anche, nella versione di Edoardo Albinati, un racconto dal titolo Per sempre lassù. Nella sua introduzione, McInerney scriveva a proposito dell’autore di quel racconto: «Uno sperimentatore postmodernista [...] furiosamente creativo. [...] Le sue ambientazioni e le sue strategie narrative sono varie, ma sempre attualissime» (McInerney 1994, 14). Sono probabilmente le prime parole mai pubblicate in Italia a proposito di David Foster Wallace.

Poco più che trentenne, Wallace era all’epoca uno scrittore di ottime speranze. Aveva esordito venticinquenne, nel 1987, con un romanzo ambizioso, The Broom of the System, che aveva conquistato molti lettori e aveva ricevuto un’accoglienza critica perplessa ma affascinata, di cui resta emblematica la recensione sul «New York Times» dell’autorevolissima Michiko Kakutani, secondo cui il giovane romanziere aveva sì talento da vendere, però «il problema è che spesso troviamo presunzione invece che vera intelligenza, verbosità invece che eloquenza» (Kakutani 1986; traduzione mia). In seguito Wallace aveva pubblicato su svariati periodici – da «Fiction» a «Harper’s», da «Playboy» alla «Paris Review» – una serie di racconti in gran parte confluiti nel 1989 in Girl with Curious Hair, e si stava anche affermando come saggista, con recensioni per i quotidiani più importanti («New York Times», «Washington Post», «Los Angeles Times» e altri), lunghi articoli per riviste su temi che andavano dalla narrativa contemporanea al tennis alla televisione e, nel 1990, un volume sul rap, Signifying Rappers: Rap and Race in the Urban Present, scritto insieme a Mark Costello.

In Italia era praticamente sconosciuto. Poi uscì su «Panta» la traduzione di Forever Overhead (in seguito incluso in Brief Interviews with Hideous Men e destinato a diventare un piccolo classico) e c’è chi dice di esserne rimasto folgorato. Edoardo Nesi racconta: «Sin dalla prima pagina mi parve che Per sempre lassù fosse il Racconto Degli Anni 90, straordinariamente capace com’era di catturare – in diretta – una specie di “sfiorato” zeitgeist di quegli anni inafferrabili, e di farlo senza volere» (Nesi 1996). E ancora, diversi anni dopo: «Io lo capii subito che Wallace era di un’altra categoria rispetto a tutti. Fin da Per sempre lassù, il suo primo racconto pubblicato in Italia. Su “Panta”. Fu quel miracoloso “Ciao” alla fine…» (Consonni 2011).

Il ghiaccio era rotto e, poco più di un anno dopo, uscì da Theoria Nuovi narratori americani. Racconti della Post-generation, una selezione di nove racconti, tradotti da Cristiana Mennella e tratti dall’antologia curata da Michael Wexler e John Hulme Voices of the Xiled, che comprendeva anche, di Wallace, Ragazzina dai capelli curiosi. Cristiana Mennella, all’epoca a inizio carriera (aveva appena esordito, sempre per Theoria, con i Marginalia di Poe), negli anni successivi si sarebbe affermata come traduttrice proprio di nuovi narratori americani (fra cui Saunders e Vollmann), ma non avrebbe più avuto occasione di lavorare su Wallace, che, ricorda oggi divertita, all’epoca le era sembrato «un poco fuori di testa» (Mennella 2012).

Nel giro di pochi anni Girl with Curious Hair sarebbe stato tradotto altre due volte, da Francesco Piccolo per Einaudi e da Martina Testa per minimum fax. Quest’ultima ebbe in seguito modo di raccontare quanto la lettura di Nuovi narratori americani l’avesse colpita, e avesse anche rappresentato per lei il primo incontro con Wallace:

Quando lessi Nuovi narratori americani non sapevo chi era David Foster Wallace, non avevo letto Infinite Jest, non immaginavo che quello sarebbe diventato il mio libro di culto per eccellenza, non immaginavo che Wallace stesso sarebbe diventato il mio autore di culto e uno dei miei esseri umani preferiti sulla faccia della terra; non mi sognavo neanche che sarei diventata una traduttrice e un’editor (non sapevo neanche cosa volesse dire, editor), tantomeno che avrei tradotto lui. E a dire il vero, il racconto di David Foster Wallace contenuto nell’antologia [...] non era neanche fra i miei preferiti. Era la storia di un ricco psicolabile iperviolento, e mi sembrava che l’autore non fosse altro che un Bret Easton Ellis più cerebrale e sborone (Testa 2006).

Nella nota biografica che precedeva il suo racconto, Wallace veniva presentato così: «Sta lavorando a qualcosa di lungo per Little, Brown & Co. che ha tutta l’aria di non essere pronto per la scadenza, non è mai stato, in nessun luogo, per nessun motivo in ritardo con qualcosa, ragion per cui è un po’ fuori fase, attualmente» (Wexter e Hulme 1995, 39). Il qualcosa di lungo sarebbe diventato Infinite Jest.

Negli Stati Uniti a quel punto David Foster Wallace era considerato the next big thing, il Nuovo Grande Scrittore che tutti attendevano. Come ha ricordato David Lipsky a proposito dell’ambiente dell’editoria newyorkese, Wallace aveva «fatto sì che un’intera città di editor e scrittori bercianti, sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque, si innamorasse di lui perdutamente» (Lipsky 2011, 16). Il 1º febbraio 1996 Infinite Jest era in libreria: 1079 pagine, 388 note, e in copertina un cielo ingombro di nuvole che lasciava presagire tutto fuorché una lettura serena. Anche questa volta le recensioni non furono unanimamente positive. Michiko Kakutani scrisse che Wallace era «uno scrittore dal talento virtuosistico che sembra in grado di fare qualunque cosa», però scrisse pure che a tratti il romanzo sembrava «una scusa per fare sfoggio del suo talento e svuotare la sua mente irrequieta» (Kakutani 1996; traduzione mia); e piuttosto simile fu il verdetto di Jay McInerney (McInerney 1996). Ma Infinite Jest si conquistò subito un nutrito seguito di ferventi ammiratori, veri e propri fan che in breve tempo ne fecero un libro di culto nel senso più pieno della parola. Ne è segno fra molti il fatto che il sito The Howling Fantods, interamente dedicato alle opere di Wallace, venne fondato nel marzo 1997, quando l’utilizzo di massa di internet era ancora agli albori (il dominio Google, ad esempio, fu registrato solo sei mesi dopo, il 15 settembre 1997).

Mentre nella maggior parte delle nazioni europee Infinite Jest veniva subito liquidato come intraducibile (in Germania il libro sarebbe uscito solo nel 2009; in Francia non è ancora uscito ed è annunciato per il 2014), l’Italia fu uno dei primi paesi a drizzare le antenne, e nel giro di qualche mese diversi editori si misero sulle tracce dei libri di Wallace. Fra le case editrici interessate, una fra le candidate più plausibili pareva la Fanucci, dove Luca Briasco e Mattia Carratello stavano fondando la collana «Avant Pop», il cui primo titolo, pubblicato nel settembre 1998, fu l’antologia a cura di Larry McCaffery Schegge d’America. Nuove avanguardie letterarie. Era la terza raccolta uscita in Italia nel giro di pochi anni a includere un racconto di Wallace, in questo caso Tri-Stan: I Sold Sissee Nar to Ecko (nella traduzione di Piergiorgio Nicolazzini e Maria Cristina Pietri), anch’esso destinato a confluire nel 1999 in Brief Interviews with Hideous Men. Nella sua articolata rassegna in appendice all’edizione italiana dell’antologia, McCaffery parlava anche di Girl with Curious Hair, descrivendolo come uno dei libri più esplicitamente Avant Pop della nuova letteratura americana (McCaffery 1998, 405-6); ci si poteva quindi aspettare di trovare Wallace accanto a Vollmann e a Philip Dick nel futuro catalogo della nuova collana di Fanucci, ma non andò così.

Marco Cassini, il direttore commerciale di minimum fax, ricorda: «“Compralo, compralo che te lo fottono”, mi consigliava anni fa con fraterno afflato, all’uscita di un reading di Ian McEwan, Sandro Veronesi”» (Cassini 2003). E fu all’uscita del reading di Ian McEwan al primo Festivaletteratura di Mantova che Sandro Veronesi chiese a Susanna Basso di tradurre Infinite Jest per la neonata Fandango (Basso 2012). Domenico Procacci aveva infatti acquistato i diritti italiani di entrambi i romanzi di Wallace, Infinite Jest e The Broom of the System. Sul piatto restava la raccolta di racconti Girl with Curious Hair. Come ha raccontato Cassini sul sito della casa editrice (Cassini 2003), minimum fax aveva firmato nel giugno 1997 un contratto per i diritti italiani del libro. Nonostante ciò, nel settembre 1998 uscì da Einaudi Stile libero (allora al secondo anno di vita) La ragazza con i capelli strani, in una traduzione firmata da Francesco Piccolo da cui mancavano tre dei dieci racconti: John BillyHere and There e Westward the Course of the Empire Takes Its Way. La spinosa situazione si risolse solo cinque anni più tardi, quando, in seguito a un accordo stipulato fra minimum fax e l’agente di Wallace, Einaudi ritirò dopo trenta mesi il suo libro dal commercio, e da minimum fax uscì La ragazza dai capelli strani in una nuova, più puntuale traduzione di Martina Testa che ripristinava i racconti mancanti.

Nel frattempo minimum fax aveva pubblicato altri quattro libri di Wallace: nel settembre 1998 Una cosa divertente che non farò mai più (traduzione di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo) e nel maggio 1999 Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più) (traduzione di Vincenzo Ostuni, Christian Raimo e Martina Testa) – cioè la raccolta di saggi del 1997 A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again smembrata in due volumi -, nel giugno 2000 Il rap spiegato ai bianchi – cioè Signifying Rappers nella traduzione di Martina Testa e Christian Raimo – e nell’aprile 2001 (nella traduzione di Martina Testa) Verso occidente l’impero dirige il suo corso, cioè il racconto lungo (o romanzo breve) Westward the Course of the Empire Takes Its Way non incluso nella traduzione di Martina Testa/Einaudi di Girl with Curious Hair.

Ricorda Martina Testa:

Ecco come sono diventata una traduttrice: nel 1998 ho comprato A Supposedly Fun Thing… in una libreria internazionale di Roma: il primo pezzo mi ha lasciata interdetta, il secondo mi ha tenuta sveglia quasi per tutta una notte, il libro intero mi ha esaltata come forse non aveva mai fatto nessun altro libro prima di allora; io e un mio amico abbiamo sentito dire che una casa editrice cercava un traduttore proprio per quel libro; non avevamo esperienza; gli abbiamo chiesto di farci provare; ci hanno fatto provare; la prova gli è piaciuta (Testa 2008).

Martina Testa divenne poi, oltre che una delle principali traduttrici di Wallace, anche la direttrice editoriale di minimum fax, e i libri di quella casa editrice diedero un contributo fondamentale alla diffusione di David Foster Wallace in Italia, ma il pezzo forte, quello più atteso, restava Infinite Jest.

Nell’autunno del 1997 Susanna Basso aveva ricevuto il libro. Aveva subito pensato, ricorda oggi (Basso 2012), di non potersi concedere il lunghissimo tempo e la dedizione assoluta che le parevano necessari per tradurlo, e l’aveva proposto, riservandosi di farne poi la revisione, a Grazia Giua, all’epoca una traduttrice giovane ma non priva di esperienza, che aveva accettato.

Così, per nove mesi, assistita da Susanna Basso in un ruolo che oggi definisce da coach (Giua 2012), Grazia Giua (che anni dopo sarebbe diventata editor Einaudi) si dedicò anima e corpo a una traduzione che la assorbì completamente e la pose di fronte a «insidie sconfinate». Oltre a essere mastodontico – Wallace disse una volta che ai commessi delle librerie sarebbe toccato aiutare chi lo comprava a caricarlo in macchina (Bruni 1996) – il libro era scritto in una lingua enormemente complessa, che costrinse la traduttrice non solo ripercorrere le funambolesche evoluzioni di una sintassi acrobatica, ma anche a impadronirsi di una miriade di lessici iperspecialistici:

Centinaia di pagine di appunti, centinaia, molte, di mail. E i libri: compendi di fisica, di matematica, manuali sul tennis e sul football americano, volumi sulla droghe, sintetiche e no, il Physician Desk Reference e il prontuario farmaceutico (carpito a un sospettosissimo farmacista), dizionari del cinema e di qualunque altra cosa. E i colloqui infiniti e meravigliosi con gli informant, di ogni ordine grado e professione, dai due lati dell’oceano. Non tutto mi è servito, e di certo non mi è bastato, ma ricordo la sensazione – ossessiva, immagino; delirante, mi dicevano – di vagare per scaffali, vetrine, palestre, strade, mondo, e pensare, sempre, eh sì, questo mi può servire, questo lo troverò, in qualche momento, a qualche punto, e allora mi servirà (Giua 2008).

Il romanzo però prima o poi sarebbe dovuto uscire, e ben presto si creò uno scollamento fra le esigenze della traduttrice, cui sembrava necessario dedicare a quel lavoro un tempo e una cura maggiori di quelli concessi dal suo contratto, e quelle dell’editore, Domenico Procacci, e del direttore della collana «Mine vaganti» in cui il romanzo sarebbe uscito, Sandro Veronesi, che non ritenevano di poter rimandare la pubblicazione di un libro così atteso. Nel giro di qualche mese lo scollamento sfociò in una rottura e, dopo aver tradotto le prime 385 pagine con relative torrenziali note, Grazia Giua fu rimpiazzata da un’altra giovane traduttrice, Annalisa Villoresi, e dallo scrittore Edoardo Nesi.

Una delle rarissime testimonianze di Annalisa Villoresi sul proprio lavoro al romanzo si trova in un articolo pubblicato dal «Tirreno» il 23 dicembre 2000 in occasione dell’uscita del libro:

«Non è stato facile restituire in italiano lo slang e il particolare stile letterario di Wallace – racconta la co-traduttrice – soprattutto per me che ero alla prima esperienza». Trentacinque anni, madre di due gemelle di 5, Villoresi è subentrata alla precedente traduttrice romana [sic, ma Grazia Giua non è romana], lavorando da marzo del 1998 fino ad agosto di quest’anno per circa sei ore al giorno. «Avevo smesso di lavorare per stare con le mie figlie ma ora, dopo questa esperienza, spero di avere altre occasioni. Non credevo che sarei riuscita a tradurre un romanzo così complesso in così poco tempo». Lo stesso Nesi definisce «sorprendente» il risultato e aggiunge: «Annalisa è stata bravissima, ha fatto un grande lavoro soprattutto con notevole e costante impegno». Lo scrittore imprenditore pratese, che deve a Procacci anche la realizzazione del suo primo film Fughe da fermo nelle sale a marzo, si è occupato della “ripulitura” (Bernacchioni 2000).

Da parte sua, così racconta Edoardo Nesi:

Pur potendomi appoggiare a una prima traduzione di Annalisa Villoresi e Grazia Giua, tradurre in italiano Infinite Jest mi è costato l’inverno e la primavera e l’estate 2000, e per varie ragioni: l’estrema complessità della trama che si supera e si ripiega e si rincorre continuamente; le dozzine di vividissimi personaggi e le loro complesse interazioni; la lingua ricchissima dell’autore, le lunghe dissertazioni tennistiche e farmacologiche e chimiche e cinematografiche con uso continuo di termini specialistici; la frequente coniazione di nuove parole in americano; l’uso di prefissi greci legati a oscuri termini medici; la decisione di non aggiungere note di traduzione non assolutamente necessarie per via delle moltissime pagine di note al testo già scritte dall’autore; la presenza nel romanzo di numerosissimi refusi d’autore poiché ben pochi dei personaggi sanno parlare o persino pensare in un inglese corretto (Nesi 2001).

Intanto, nel novembre 1999, da Fandango era arrivato in libreria La scopa del sistema, il primo romanzo di Wallace, in un’edizione che si segnalava, oltre che per la bella illustrazione di Gianluigi Toccafondo in copertina, per una quarta genialmente essenziale, appena tre parole: «Mi manca chiunque». La traduzione era di Sergio Claudio Perroni, che oggi ricorda i mesi dedicati a lavorare su quella scrittura «di straordinaria intelligenza» come un periodo molto felice, una delle pochissime occasioni nella sua carriera (già all’epoca ben avviata) in cui l’estrema difficoltà non fu per lui «una rottura di scatole» ma «un enorme piacere» (Perroni 2012). E poi, il 10 dicembre 2000, dopo più di tre anni di lavorazione complessiva, finalmente uscì Infinite Jest. All’interno del volume la traduzione era accreditata a «Edoardo Nesi con la collaborazione di Annalisa Villoresi e Grazia Giua», ma in copertina c’era scritto: «Traduzione di Edoardo Nesi». Da quel momento nel parlare comune Nesi sarebbe stato il traduttore di Infinite Jest.

Nel giro di due o tre anni appena, giusto gli anni di fine millennio, in Italia Wallace era così passato dallo status di sconosciuto a quello di autore di primo piano, sebbene ancora letto solo da un pubblico di nicchia, con ben otto volumi usciti fra il settembre 1998 e l’aprile 2001. L’apice di questa fulminea consacrazione fu probabilmente la lettura integrale di Infinite Jest (una non-stop di 72 ore) organizzata da Fandango al cinema Politecnico di Roma fra il 15 e il 17 dicembre 2000, quando, fra l’apertura di Alessandro Baricco e la chiusura di Fernanda Pivano, a leggere il romanzo si alternarono decine e decine di persone, celebri o meno.

Ancor più sorprendente è dunque, soprattutto col senno di poi, che fino ad allora fra i traduttori di Wallace ben pochi fossero professionisti affermati. Edoardo Nesi, che stava mietendo i primi successi come romanziere, aveva tradotto solo cinque libri (di Malcolm Lowry, Michael Hornburg, Buster Keaton, Stephen King e Quentin Tarantino), e dopo Infinite Jest non avrebbe quasi più tradotto. Quanto allo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo (che aveva firmato La ragazza con i capelli strani per Einaudi e, insieme a Gabriella D’Angelo, Una cosa divertente che non farò mai più per minimum fax) non aveva tradotto nessun altro libro e non ne avrebbe tradotti altri. Martina Testa, che invece come traduttrice avrebbe poi fatto molta strada, era allora alle primissime armi (il che non le aveva impedito di meritare e vincere insieme a Christian Raimo il Premio Procida – Isola di Arturo per Il rap spiegato ai bianchi, un libro decisamente arduo da rendere in italiano), e alle primissime armi erano anche Raimo e Ostuni.

Le eccezioni erano Sergio Claudio Perroni – che aveva già in curriculum una ventina di romanzi, di autori come Highsmith, Ellroy, Vonnegut, Houellebecq e Moody – e soprattutto Ottavio Fatica, che aveva alle spalle una lunga esperienza con classici della stazza di Kipling, Stevenson, Conrad, James e molti altri. Ma forse Fatica, quando nel 1999 Paolo Repetti di Einaudi «Stile libero» affidò a lui e Giovanna Granato Brief Interviews with Hideous Men, non trovò Wallace particolarmente nelle proprie corde, perché riservò per sé solo pochi racconti e lasciò gli altri alla co-traduttrice, che oggi ricorda:

C’è un episodio significativo di com’è stato per me tradurre Wallace. Mentre lavoravo al primo racconto, La persona depressa, all’improvviso è saltato il computer e si è cancellato tutto. E io, come nulla fosse, ho subito ricominciato da zero. Tradurre quel racconto aveva prodotto in me questa sensazione di abbandono totale. Si trattava di lasciarsi travolgere dal vortice della sua scrittura, abbassare le difese, lasciarsi andare e, semplicemente, seguire la luce chiarissima che emanava dalle sue pagine (Granato 2013).

Quel libro comprendeva anche un racconto che all’epoca a Fatica e Granato parve intraducibile, Datum Centurio. Così, come era già accaduto nel caso di La ragazza con i capelli strani, e come purtroppo spesso accade nelle edizioni italiane di raccolte di racconti straniere, si decise di tralasciarli (e, di conseguenza, per non alterare troppo la struttura del libro, di tralasciare anche la Breve intervista n. 59 e Tri-Stan, già uscito nell’antologia di Fanucci Schegge d’America), una scelta da cui fra l’altro si evince come all’epoca Wallace non avesse ancora quello statuto di classico contemporaneo che oggi ci appare scontato.

Esauritasi così l’intera backlist, negli anni fra il 2002 e il 2007 il ritmo delle uscite rallentò. Furono però gli anni in cui, come ricorda Martina Testa, in Italia la fama dello scrittore si consolidò:

All’inizio c’è stato un lentissimo crescendo di attenzione. Nei primi anni Duemila, per dire, la raccolta di saggi Tennis, tv, trigonometria, tornado si vendeva così poco che a un certo punto rischiammo di doverne macerare qualche centinaio di copie. A partire dalla nostra edizione della Ragazza dai capelli strani (2003), che andò subito molto bene, ci è sembrato che l’interesse del pubblico crescesse, anche nei confronti degli altri titoli, che infatti, nel corso degli anni, non sono mai andati fuori catalogo. Probabilmente è stato in quel periodo che si è verificato il fatidico “passaparola dei lettori” (Gregorio 2011).

Fu in questo periodo che Einaudi riuscì ad aggiudicarsi le nuove uscite – nel 2004 la raccolta di racconti Oblivion, tradotta da Giovanna Granato come Oblio, e nel 2006 la raccolta di saggi Consider the Lobster, tradotta da Adelaide Cioni e Matteo Colombo come Considera l’aragosta – e ad acquistare i diritti di Infinite Jest e della Scopa del sistema (che non erano stati rinnovati a Fandango), per poi ripubblicare i due romanzi nella collana «Stile libero Big» rispettivamente nel 2006 e nel 2008, senza apportarvi alcuna correzione o modifica. Presso la casa editrice di divulgazione scientifica Codice uscì invece nel 2005 Tutto, e di più, la traduzione (di Giuseppe Strazzeri e Fabio Paracchini) dell’impegnativo saggio di logica matematica Everything and More: a Compact History of Infinity.

Wallace aveva ormai, grazie a Infinite Jest ma forse ancor più a La scopa del sistema, un’affezionata platea di lettori italiani, e non a caso fu proprio in Italia che lo scrittore fece una delle sue rarissime apparizioni al di fuori degli Stati Uniti, intervenendo nel 2006 – insieme a Nathan Englander, Jeffrey Eugenides, Jonathan Franzen e Zadie Smith – al festival Le conversazioni a Capri, organizzato da Antonio Monda. Ricordò in seguito Martina Testa, che in quell’occasione fu la sua interprete:

Continuava a dire che eravamo vecchi amici (anche se in realtà ci eravamo incontrati solo due o tre volte, e detti poco più che ciao). Mi dava pacche sulle spalle, mi abbracciava, mi scroccava sigarette con un sorriso imbarazzato (aveva smesso di masticare tabacco, ma ancora non poteva fare a meno della nicotina) e mi chiedeva di stargli vicino; una volta, quando mi sembrava di aver combinato un disastro nel fare da interprete a un altro autore, si mise subito a rassicurarmi del fatto che ero andata benissimo. Nonostante si facesse un gran parlare di quanto era a disagio in mezzo alla gente, in realtà aveva un calore e una dolcezza che sarebbero rari da trovare in chiunque – figuriamoci poi in un genio, o nel tuo scrittore preferito (Testa 2008).

Era la fine di giugno – scrisse diversi anni dopo Antonio Monda – nell’atmosfera rilassata del festival Le conversazioni a Capri, e nessuno, neanche tra i più intimi, poteva immaginare che quel viaggio avrebbe rappresentato uno degli ultimi momenti di serenità della sua esistenza destinata a spezzarsi tragicamente due anni dopo (Monda 2011).

E in effetti, quando il 12 settembre 2008 lo scrittore fu trovato dalla moglie Karen Green impiccato nel patio della loro casa di Claremont, in California, furono in molti a sentirsene personalmente feriti. Come scrisse all’epoca Nicola Lagioia:

Il suicidio di David Foster Wallace ha lasciato scioccata un’intera generazione di lettori. Al di là dei coccodrilli e del tran tran dignitosamente ordinario di una breve commemorazione mediatica, le autostrade telematiche sono state rapidamente invase da messaggi pieni di sgomento e di dolore autentico. Sui siti internet, nei blog, nei forum di discussione e poi, fuori dalla rete, nelle conversazioni tra appassionati (spesso molto giovani) di letteratura contemporanea: «è morto uno di noi…», «lo sentivo vicino come un fratello…», «adesso mi sento persino più solo di prima…», «si può provare tanto dispiacere per una persona che non si è mai frequentata fuori dalla pagina?» (Lagioia 2008).

Un’impressione confermata dalla testimonianza di Tommaso Pincio:

Vengo a sapere che David Foster Wallace si è impiccato. [...] Poco dopo squilla il telefono. Un amico vuole commentare il fatto. Siamo entrambi sconcertati, affranti. Nessuno dei due può dire di aver conosciuto Wallace, eppure ci è naturale parlarne come di una persona cara (Pincio 2011, 108).

E se lettori e critici si sentirono toccati così nell’intimo dalla morte improvvisa di uno scrittore che sentivano insolitamente vicino, tanto più si sentirono chiamate in causa le persone che avevano tradotto, editato o pubblicato i suoi libri. Data l’intricata storia editoriale di Wallace in Italia, non stupisce che più d’uno si sia sentito in quel momento di poter rivendicare una sorta di primogenitura, o comunque un legame privilegiato con lo scrittore scomparso. In un paginone interamente dedicato a Wallace, ad esempio, l’«Unità» affiancava, sotto il poco felice titolo La maratona della memoria, una serie di trafiletti commemorativi. Procacci, direttore editoriale di Fandango, dichiarava: «Non l’ha mai saputo, D.F.W., e ormai non lo saprà mai, ma una piccola casa editrice, la nostra, la Fandango Libri, è nata per pubblicare un suo lavoro, il monumentale Infinite Jest» (Procacci 2008); e a fianco Veronesi:

Io credo che Infinite Jest sia il più grande romanzo che sia stato scritto nel dopoguerra. [...] Averne fortemente voluto la traduzione, aver fondato una casa editrice, con Procacci, praticamente a questo scopo, rappresenta probabilmente il mio più alto merito letterario; averne organizzato la lettura integrale, nel dicembre del 2000, al Politecnico di Roma, una delle cose più belle che abbia fatto nella vita (Veronesi 2008);

e Cassini, direttore commerciale di minimum fax: «Eravamo i primi folli editori al mondo a voler pubblicare un suo libro al di fuori dell’America e infatti ne comprammo i diritti per cinquecentomila lire» (Cassini 2008). Anche Fernanda Pivano parlò di lui, sul «Corriere della Sera», come di «un altro amico, dolce, fragile e generoso che se ne va», inserendolo in una sorta di genealogia di scrittori suicidi suoi amici, da Pavese a Hemingway a Wallace (Pivano 2008). Martina Testa scrisse sul sito di minimum fax:

Nessuno è stato altrettanto difficile e gratificante. Su nessuno mi sono impegnata con tanto amore. Ogni volta che ho tradotto qualcosa di suo, gli ho mandato delle domande. Lui rispondeva con riluttanza, era in difficoltà, continuava a dire che una certa storia era impossibile da tradurre in maniera dignitosa e fedele – il che a volte mi faceva venire da piangere; e poi scriveva pagine intere per spiegarmi una singola parola o una singola frase, e concludeva dichiarando la sua totale fiducia nelle mie capacità di traduttrice – il che, di nuovo, mi faceva venire le lacrime agli occhi (Testa 2008).

Come negli Stati Uniti, anche in Italia si tennero eventi in sua memoria, il principale dei quali si svolse il 12 ottobre (a un mese dalla morte) al Teatro Ghione di Roma. In quell’occasione si ritrovarono tutti gli editori italiani di Wallace (minimum fax, Fandango, Einaudi e Codice), molti suoi traduttori e diversi scrittori che si consideravano suoi «compagni di strada». Cominciò poi, come inevitabilmente capita in casi simili, una nuova fioritura di edizioni italiane. Minimum fax, che proprio in quel momento stava celebrando il quindicennale della casa editrice con la speciale collana «I Quindici», nel 2008 ripubblicò in questa nuova veste, arricchita da una grafica molto curata e da nuovi apparati ed «extra», La ragazza dai capelli strani (con Brave persone in appendice, un estratto da quello che in seguito sarebbe diventatoIl re pallido), nel 2009 Burned Children of America (un’antologia di nuovi narratori americani, uscita la prima volta nel 2001, che si chiudeva con il racconto di Wallace Incarnazioni di bambini bruciati, da cui il titolo) e nel 2010 Una cosa divertente che non farò mai più. Seguirono le nuove edizioni di tutti i libri di Wallace nei «Sotterranei».

Einaudi alle riedizioni affiancò alcuni inediti. Uno degli ultimi testi scritti da Wallace era una conferenza, un commencement address (ossia una prolusione) pronunciato di fronte ai neolaureati del Kenyon College il 15 maggio 2005. Qualche mese dopo la morte dell’autore, la Little, Brown & Co. (che a partire da Infinite Jest era diventata la casa editrice di Wallace) lo aveva pubblicato col titolo This Is Water. Some Thoughts, Delivered on a Significant Occasion, about Living a Compassionate Life. In quel volumetto a ogni singola frase del breve e intenso discorso era riservata un’intera pagina, così che le parole dell’autore venivano a trovarsi circondate da grandi spazi bianchi, una sorta di aura che trasmetteva al lettore la sensazione di avere fra le mani un testo sapienziale, o magari, come ebbe a scrivere Zadie Smith, «un librettino di self-help da leggere al cesso» (Smith 2010, 378).

L’insolita scelta editoriale della Little, Brown & Co. si inseriva in quella che qualcuno definì la «beatificazione» di David Foster Wallace (Salis 2011), uno scrittore che, se agli esordi era stato considerato un epigono dei postmodernisti, un ironico acrobata delle parole (Bajani 1999), col tempo si era spostato sempre più verso una concezione morale, se non esplicitamente spirituale, della letteratura (un’evoluzione già ben compresa nel 1998 da Mattia Carratello nella sua lucidissima postfazione a La ragazza con i capelli strani), e che proprio per questo aveva suscitato nei suoi lettori un coinvolgimento così viscerale. In un articolo su «Slate», Nathan Heller si era chiesto perché Wallace ispirasse una tale devozione nei suoi ammiratori, e al termine di un’approfondita analisi delle sue opere si era risposto:

È stato l’intellettuale del 21° secolo che ha insegnato ai lettori a provare sentimenti, lo scrittore che ha spiegato come sia possibile vivere in modo ricettivo e umano senza rinnegare una cultura pesantemente, eminentemente critica (Heller 2011; traduzione mia).

Anche Tim Jacobs, su «Rain Taxi», aveva azzardato una risposta: «Non era Gandhi e non è morto per i vostri peccati, ma i concetti di servizio e di sacrificio personale, soprattutto nell’ambito della scrittura, li prendeva palesemente sul serio» (Jacobs 2008-2009; traduzione mia).

In questo contesto Einaudi «Stile libero» preferì non incoraggiare ulteriormente una lettura di Wallace che molti ritengono fuorviante, o comunque dannosa. Wallace era sì un genio, precisa ad esempio Martina Testa, ma

penso che connotarlo come una specie di unicum, di “monstrum”, di prodigio sia inopportuno, non giovi alla percezione che il pubblico ha di lui, gli faccia più male che bene, e personalmente non vorrei contribuire ad alimentare in nessun modo l’aura quasi mitica che ormai lo circonda (Testa 2012).

Sulla stessa posizione Giovanna Granato, la traduttrice di This Is Water: «È un errore farne un culto perché non era l’immagine che lui voleva dare di sé» (Granato 2013). La casa editrice italiana decise dunque di far uscire, in concomitanza col primo anniversario della morte dell’autore, il discorso intitolato Questa è l’acqua in un omonimo volume, curato da Luca Briasco, che recuperava anche cinque racconti, perlopiù giovanili, ancora inediti in Italia (e tuttora uncollected negli Stati Uniti), fra cui il primo in assoluto mai pubblicato da Wallace (nel 1984), Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, in cui lo scrittore raccontava l’insorgere della depressione e della dipendenza dai farmaci.

C’era però in cantiere un inedito ben più importante. Alle Conversazioni a Capri Wallace aveva letto un brano di prosa chiamato Estratto senza titolo da un qualcosa di più lungo che ancora non è neanche lontanamente scritto (pubblicato all’epoca in una plaquette con a fronte una traduzione di Martina Testa). Quel brano era poi stato ritrovato, insieme a centinaia di altre pagine, sulla scrivania di Wallace il giorno del suo suicidio (Max 2009; Pietsch 2011). Quelle pagine erano il dattiloscritto incompiuto di quello che avrebbe dovuto diventare il suo terzo romanzo e, dopo un lungo e complesso lavoro di riordinamento e collazione da parte di Michael Pietsch (l’editor di Little, Brown & Co. che già aveva lavorato a Infinite Jest), sarebbero uscite nel 2011 col titolo The Pale King. Einaudi affidò anche questo libro a Giovanna Granato, che ricorda:

La difficoltà più superficiale, ma molto fastidiosa è stata dover cercare tantissimi riferimenti, cosa che porta via un sacco tempo. Invece non è difficile la struttura della frase, perché la sua scrittura, per quanto complessa e piena di meandri, non è mai ambigua, è lucida e solida. Le sue architetture verbali sono di una solidità mostruosa. Il difficile è restituire il grandissimo spessore che si cela sotto quelle che possono anche apparire storielle in cui non succede niente di che. Le strutture sono ripetitive ma leggere e limpidissime, la difficoltà sta sotto, nella fittissima rete dei riferimenti che danno un senso profondo al tutto. Affrontare la lunghezza delle frasi è solo una cosa muscolare. Basta allenarsi, fare un respiro profondo e buttarsi nel vortice. La sua scrittura non dà grandi margini di movimento, perciò devi per forza essere letterale. È tutto troppo solido, non si lascia scalfire (Granato 2013).

In questo caso però, racconta ancora la traduttrice, c’era una difficoltà più profonda:

Lavorare al Re pallido è stato come mettere le mani nella carne viva, dovendo affrontare in molte parti un testo “sporco”, non ancora ripulito dall’autore con la sua solita cura maniacale. Mi capitava di provare un imbarazzo da voyeur, come trovandomi a vedere quello che lui non avrebbe voluto farci vedere, il corpo nudo della sua scrittura. È stato pesantissimo dal punto di vista psicologico. Anche perché in passato Wallace non aveva mai scritto in modo così nudamente autobiografico. È stato come camminare costantemente sui confini di un territorio in cui non mi sembrava giusto entrare, intrattenendo con l’autore un rapporto personale, mentre non deve essere così. Per questo ho cercato di avere il massimo rispetto del testo, trattandolo non tanto come un romanzo, ma come un documento. Perciò, dove la scrittura è sporca, è stata lasciata sporca. In questo caso la resa è stata ancora più letterale del solito, e mi sono data la regola di non correggere anche laddove evidentemente Wallace in un secondo tempo sarebbe intervenuto. Ad esempio, di solito la punteggiatura è meravigliosa, perfetta, chiarissima. In questo caso invece a volte non lo era, ma non è stata toccata. In questo l’Einaudi, e soprattutto Alessandra Montrucchio, che ha fatto la revisione e mi ha aiutata nelle ricerche sui termini tecnici, mi hanno sostenuta molto (Granato 2013).

Con Il re pallido può dirsi conclusa la grande stagione editoriale di David Foster Wallace in Italia, sebbene altre nuove uscite ci siano state e continueranno probabilmente a esserci. Nel 2012 da Einaudi è stato pubblicato, ancora in una traduzione di Giovanna Granato, e con grande successo, Il tennis come esperienza religiosa, che raccoglie due reportage, uno inedito in Italia, Democrazia e commercio agli US Open, e uno, già uscito nel 2010 da Casagrande in una traduzione di Matteo Campagnoli, dal titolo Roger Federer come esperienza religiosa. Per il 2013 sono annunciate diverse novità di non poco conto: Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, ovvero la prima biografia di Wallace, scritta da D. T. Max e tradotta da Alessandro Mari; la traduzione di Giovanna Granato dei saggi uncollectedpubblicati nel 2012 da Little, Brown & Co. col titolo Both Flesh and Not; una nuova edizione di Brevi interviste con uomini schifosi che finalmente recupera i tre racconti mancanti; una nuova edizione del Re pallido (negli «Einaudi Tascabili») che presenta in appendice le quattro nuove scene inserite nel paperback dell’edizione statunitense; e infine una nuova edizione di Infinite Jest in cui sono stati corretti i numerosi refusi presenti nelle edizioni cartacee (solo in e-book, un assaggio di quella che sarà l’edizione speciale per il ventennale del libro nel 2016).

Da minimum fax invece è in uscita la traduzione delle Conversations with David Foster Wallace curate da Stephen J. Burn (2012), una raccolta delle non molte ma preziose interviste rilasciate nel corso degli anni da Wallace, fra cui, essenziali e citatissime, quelle di Larry McCaffery per la «Review of Contemporary Fiction» (1993) e di Laura Miller per «Salon» (1996). Resta da tradurre la tesi di laurea in filosofia del 1985 Fate, Time, and Language: An Essay on Free Will (Columbia University Press, 2010), e ben poco altro.

Oggi, a vent’anni dalla prima comparsa di un suo testo in Italia, e a cinque dalla morte, la popolarità e l’influenza David Foster Wallace nel nostro paese non accennano a diminuire. Lo dimostrano, oltre alle molte nuove uscite annunciate, la nascita nell’aprile 2011 del sito Archivio David Foster Wallace Italia e la pubblicazione di alcuni saggi critici e libri di interviste (Pennacchio 2009; Lipsky 2011; Susca 2012; Karmodi 2012), nonché di un «diario del dolore» scritto subito dopo la sua morte (Infinite Loss di Salvatore Toscano, 2009). E se è certamente vero che la sua scomparsa tragica e prematura ha contribuito a trasformare lo scrittore in una sorta di personaggio leggendario – e non è certo la prima volta che succede: basti pensare, senza scomodare le rockstar, al caso per certi versi analogo di Roberto Bolaño, e da noi a Sergio Atzeni o, fra i traduttori, Angelo Morino -, non si può non riconoscere che, se per tanti lettori e scrittori del nostro paese Wallace è diventato un punto di riferimento, il merito va anche ai traduttori. Ci troviamo di fronte a un felice paradosso: un autore che molti consideravano intraducibile (e che si considerava intraducibile) è stato non solo tradotto ma tradotto con grandissima fortuna.

I termini della sfida li aveva spiegati lui stesso nell’intervista rilasciata a «Salon» in occasione dell’uscita di Infinite Jest:
Il progetto che vale la pena portare avanti è fare della roba che mantenga la ricchezza e il coraggio e la difficoltà emotiva e intellettuale dell’avanguardia, roba che costringa il lettore ad affrontare le cose invece di ignorarle, ma farlo in modo tale che sia anche piacevole da leggere. Allora il lettore sente che qualcuno sta parlando con lui invece di mettersi in posa (Miller 1996; traduzione mia).

È una sfida che, nonostante le tortuosità, e talvolta le ambigue opacità, delle vicende editoriali di David Foster Wallace in Italia, i traduttori hanno vinto.

 

L’elenco completo delle traduzioni italiane e dei riferimenti bibliografici è sul sito della rivista Tradurre

L’omicidio di JFK, un terremoto nella narrativa americana

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Il 22 novembre 1963 veniva assassinato a Dallas John Fitzgerald Kennedy. Pubblichiamo un brano di un articolo di Francesco Longo uscito su Europa ringraziando l’autore e la testata. (Fonte immagine)

Il giorno dell’omicidio Kennedy l’America perse la sua innocenza e la letteratura trovò un pozzo nero che traboccava di storie. Tra il più grande mistero americano e i romanzi c’è un legame che è stato sviscerato una volta per tutte da Don DeLillo: «Le trame possiedono una logica. C’è una tendenza, nelle trame, a evolvere in direzione della morte». Per DeLillo, trame politiche e narrative condividono una stessa inclinazione: la morte è «insita nella natura di ogni trama. Nelle trame di narrativa come in quelle di uomini armati», si legge nel suo libro su Kennedy, Libra.

I tre maggiori romanzi che hanno raccontato l’omicidio di Dallas rivelano l’influenza che quell’evento ha avuto sulla narrativa statunitense. Libra di DeLillo (Einaudi), American Tabloiddi James Ellroy (Mondadori) e 22/11/’63 di Stephen King (Sperling & Kupfer). Per tutti e tre l’assassinio Kennedy rappresenta la quintessenza della Storia e appare come l’emblema e l’origine dei loro generi letterari: il complotto postmoderno per DeLillo, il crime politico per Ellroy, l’orrore quotidiano per King.

Quando DeLillo scoprì che da ragazzo aveva vissuto a pochi isolati di distanza da Lee Harvey Oswald – nel Bronx – decise di scrivere un libro che raccontasse quella vita. Dopo tre anni di lavoro, nel 1988, uscì Libra. Addentrandosi nel labirinto di complotti e cospirazioni, si arrese davanti al fatto che la biografia dell’assassino fosse altrettanto labirintica e ingarbugliata: Oswald «si considerava parte di qualcosa di vasto e travolgente». I protagonisti del libro provano a risalire «le traiettorie dei proiettili fino alle vite che occupano l’ombra». Non manca chi da anni si è consacrato a scandagliare ingrandimenti fotografici, bibliografie, lettere e filmati amatoriali: «Per concludere che la materia dei suoi studi non è la politica, o il delitto, ma uomini dentro piccole stanze».

American Tabloid è il primo libro di una trilogia di Ellroy sulla recente storia americana. È composto da 100 capitoli che vanno dal novembre 1958 al 22 novembre 1963, data in cui inizia Sei pezzi da mille (che termina nel 1968). Mentre DeLillo celebra ancora i miti americani, per Ellroy «l’America non è mai stata innocente» e il lungo American Tabloid denuncia la nostalgia che «ci propina un passato che non è mai esistito». Compito del suo libro è dimostrare che l’ascesa dei Kennedy fu supportata da cerchie corrotte, e si candida a «demitizzare un’era e costruire un nuovo mito». Se DeLillo è ipnotico, affascinante e visionario, e usa Kennedy per mostrare che la Storia è spinta da una corrente di forze ingovernabili («io credo profondamente che esistano forze, nell’aria, che costringono gli uomini ad agire. Chiamala storia, o necessità, o come ti pare»), al contrario Ellroy è duro, spietato, sostituisce alla paranoia l’avidità umana, è telegrafico e sempre dissacrante: «Jack Kennedy è un dongiovanni liberale stagionato con i valori morali di un segugio da punta» (dice qualcuno nelle sue pagine). Scandali, frodi fiscali, mafia, cadaveri, l’America di Ellroy è fatta di inseguimenti, bordelli, neve da spazzolare via dai cappotti, vento che ulula e rovescia i bidoni della spazzatura. Qui tutti odiano i Kennedy.

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Scrivere la storia – King, Ellroy e DeLillo a confronto sul caso Kennedy

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Torniamo sul rapporto tra l’omicidio di JFK e la letteratura americana con un pezzo di Cataldo Bevilacqua uscito su Atlantidezine

di Cataldo Bevilacqua

Dalla curva spunta una moto, poi l’altra. Il corteo presidenziale entra nell’obiettivo della telecamera e in fondo si intravede una grossa limousine decapottabile pronta a svoltare. Si perdono dei fotogrammi, all’improvviso il corteo è quasi di fronte ai nostri occhi. Adesso sì, c’è la limo in primo piano, c’è JFK che saluta e accanto Jacqueline, nel vestito rosa di Oleg Cassini, che fa altrettanto. Ma dura un attimo, il primo colpo ferisce prima il senatore e poi il presidente. Il proiettile non è quello mortale, entra nella spalla, JFK si massaggia e la moglie lo abbraccia, lo avvolge, come a volerlo proteggere. Poi la macchina arriva perfettamente in perpendicolare al nostro punto di vista e uno sbuffo di sangue si alza dalla testa del presidente, che immediatamente si accascia. Jacqueline prima guarda il marito, attonita, poi nota qualcosa, oppure no, forse è solo la paura a spingerla: si alza dal sedile e si arrampica sulla parte posteriore dell’automobile che imperterrita continua a muoversi. Sullo sfondo un prato, e le  gambe di una donna che corrono fuori dall’obiettivo. Jacqueline è in bilico sul bagagliaio dell’enorme automobile, sembra cercare qualcosa, il cervello del marito dirà qualcuno, saltato in seguito al colpo. Da dietro uno dei bodyguard la raggiunge e le intima di ritornare sul sedile, lei lo fa, e la macchina esce dal campo visivo.

Questo è quello che Zapruder, sarto di professione, aveva girato con la sua otto millimetri quando quella mattina del 22/11/1963 si era recato a Dallas a salutare il presidente. Questo filmato è l’unica testimonianza tangibile di quello che sarebbe passato come l’attentato più sensazionale della storia fino all’11 settembre 2001.

Dietro questo episodio, così capitale secondo molti, per i destini che la nazione avrebbe intrapreso, sono poi fiorite milioni di ipotesi, complottiste e non, su chi fossero i mandanti, sul perché, su come sia stato preparato, su quanti spari siano stati effettivamente esplosi, e sulla balistica, da quale direzione cioè questi proiettili potessero provenire. Da qui allora, a ventaglio, le varie ipotesi, possibili e improbabili, da chi accusava Lee Harvey Oswald solo a chi invece propendeva per una versione più ricca, con dentro servizi segreti, mafia ed estrema destra, fino ad arrivare alla paranoia pura di coloro che sostenevano che a sparare fosse stato l’autista della limo presidenziale. Insomma, proprio come abbiamo visto avvenire per l’11 settembre, la mente umana è intervenuta a colmare gli spazi vuoti servendosi, a volte, di tutta la fantasia possibile e giungendo spesso a conclusioni plausibili ma, allo stesso tempo, inverificabili.

Quali interessi possono esserci per un narratore? Inserirsi dietro le quinte di un episodio dalla genesi incerta e dal risultato eclatante quale l’omicidio Kennedy permette all’autore di agire come demiurgo, come creatore di mondi. Se la storia, quella ufficiale, non è riuscita a giungere a una conclusione univoca, allora perché non inserirsi tra le sue fila e tentare di portare a galla una trama che ad essa, alla storia ufficiale, possa incastrarsi e/o sostituirsi? Il gioco è così allettante e ambizioso da diventare terreno fertile per scrittori di tutti i generi.

L’omicidio Kennedy diventa dunque sfondo di tre romanzi molto diversi tra di loro per finalità, target e poetica ma che ruotano, ognuno a modo suo, tutti intorno al concetto di verità. Sto parlando di 22/11/’63 di Stephen KingAmerican Tabloid di James Ellroy e Libra di Don DeLillo. Come si può notare anche gli autori sono diversissimi tra di loro, i primi due più inquadrati nella narrativa di genere, anche se entrambi tanto grandi da sconfinare in altre ambiti di giudizio (in particolare Ellroy viene citato come uno dei pochi autori di genere capace di incarnare la letteratura cosiddetta alta), e l’ultimo invece portabandiera della gloriosa generazione dell’America postmoderna, narratore di altissimo livello capace di abbracciare tutta la tradizione letteraria: insomma un autore con la A maiuscola. Detto questo avviso il lettore che, inevitabilmente, ci saranno spoiler.

22/11/’63 anagraficamente è l’ultimo uscito dei tre romanzi presi in esame. L’enorme tomo di King in realtà sembra più un’incursione nei magici anni ’50 e ’60 che un’avvincente narrazione dell’omicidio Kennedy. L’autore americano sembra non avere nessun dubbio, a uccidere il presidente è stato Oswald in totale solitudine. La frustrazione per un successo mai ottenuto e le manie di grandezza paranoiche avrebbero spinto il giovane americano con il mito dell’Unione Sovietica ad architettare ed eseguire il diabolico piano. Il male si annida solo nelle menti malate, sembra comunicarci King, e questo è un leit motiv che lega tutto il volume, tutti i “cattivi” a cui andiamo incontro sono dei pazzi paranoici vittime della loro follia: l’atto finale sarà sempre un raptus che spingerà il male ad esplodere. Addirittura King si inventa il concetto di armonia per giustificare tutto questo: le vicende si armonizzano al passato e dunque gli eventi tendono a seguire un determinato plot, ad accordarsi ad uno guida.

Il romanzo si apre su Jake Epping, professore di letteratura ultra macho di 35 anni che insegna in un college del Maine. È un tipo solitario, la moglie, ex-alcolista da poco disintossicata, lo ha mollato a causa, dice lei, della sua insensibilità, del suo aplomb inflessibile di fronte alle disgrazie della vita: in particolare della sua incapacità di piangere. Insomma Jake è solo e viene assoldato da Al, proprietario di una tavola calda, a tornare indietro nel tempo, perché nel retrobottega del suo ristorante c’è un portale capace di spedirti direttamente nel millenovecentocinquantotto. La missione di cui Jake viene investito è quella di salvare a tutti i costi JFK perché, secondo Al, quello è stato l’evento spartiacque della storia: se si riesce a invertirlo ogni cosa andrà nel verso giusto, dal Vietnam all’11 settembre. Jake, per convincersi della cosa, fa un primo viaggio attraverso il passaggio e si ritrova magicamente catapultato nel passato dove tutto sembra avere una grana e una fattura diversa: il mondo appare più genuino, più diretto, senza la frenesia del (suo) futuro o le ansie da prestazione.

La possibilità di cambiare il passato affascina Jake anche perché così potrebbe provare addirittura a salvare Harry Dunning, bidello buono ma un po’ tonto, dal lieve ritardo mentale causato dalla martellata che il padre, psicopatico alcolizzato, gli aveva inflitto una sera di Halloween di tanti anni prima, uccidendo anche tutto il resto della famiglia. Le ultime resistenze vengono rotte dallo stesso Al che si suicida attraverso dei farmaci (era ammalato di cancro e ormai era giunto alla fase terminale, ecco perché aveva scelto Jake per la missione), ponendo il nostro eroe di fronte ad un dubbio morale. Ma nell’etica di King non c’è spazio per le incertezze, bisogna essere decisi ed ecco dunque che Jake Epping cambia nome in George Amberson e intraprende il lungo viaggio che lo porterà al tentativo di sventare l’omicidio Kennedy.

Ora, durante il romanzo succedono un sacco di cose, ma la singolarità è quella che a Oswold e alla preparazione dell’attentato, King sembra non farci proprio caso. La sua posizione è netta fin dall’inizio: sì, vi è una piccola forbice di incertezza che però, dopo i primi mesi di appostamento, viene spazzata via: è stato Oswald, punto e basta. È soltanto lui l’assassino ed è soltanto lui che bisogna fermare affinché l’attentato non vada a buon termine. Ecco dunque la questione che ci riguarda, come King declina il concetto di verità rispetto a un fatto storico.

La semiotica si serve di uno strumento molto utile, il quadrato semiotico, capace di mettere dei concetti in relazione dinamica. Attraverso l’opposizione di due concetti s1 e s2 il quadrato presuppone che esistano altri due concetti nons1 e nons2 e li declina (per chi volesse approfondire può leggersi qualcosina qui oppure consultare i seguenti volumi: 1 e 2). Ora quello che serve a noi è il quadrato di veridizione. Cosa è il quadrato di veridizione? È quel quadrato semiotico che nasce dall’opposizione di Essere e Apparire. Vediamolo insieme:

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La Verità dunque non è altro che l’unione di Essere e Apparire, mentre il Segreto si posiziona sull’asse Essere e Non Apparire, la Menzogna su quello Apparire e Non Essere e la Falsità sull’asse Non Essere e Non Apparire. Se adesso volessimo posizionare in modo dinamico il romanzo di King dove lo andremmo a mettere? Parlando dell’omicidio Kennedy quello che King fa è un processo di smascheramento: l’opera passa dalla Menzogna (le teorie complottiste, tra le più accreditate) alla Verità, e lì si ancora stabile. Il dubbio è cancellato, il romanzo entra in una sua dimensione storica certa. Le cose sono andate così, Oswald ha ucciso Kennedy per una sua decisione personale.

Ellroy con il suo American Tabloid non è da meno. Anche qui il romanziere si infila nelle pagine bianche lasciate dalla storia per completarle con le trame e le vite dei personaggi che si muovevano dietro le quinte. Ecco comparire le figure leggendarie di Pete Bondurant, picchiatore dal cervello fino, Kemper Boyd, il man of the hour del romanzo, stiloso ma con una tremenda fascinazione per il potere e il concetto di compartimentazione, e Ward Littell, il fragile avvocato progressista che si ritroverà suo malgrado incastrato nei torbidi giochi di potere di Hoover, diventandone un tirapiedi. L’ambizione di Ellroy è quella di creare un romanzo, anzi una trilogia (insieme ai seguenti Sei Pezzi Da Mille e Il Sangue è randagio), che rappresenti l’atto fondativo dell’America contemporanea, il paese che sbandiera la libertà ai quattro venti ma che in realtà poggia le sue basi sulla violenza, la menzogna e lo sfruttamento. Lo dice esplicitamente l’autore nella prima frase dell’introduzione, quell’intervento che sta lì ad ammantare di verità tutto il resto della vicenda. Quella frase recita così:

L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio.

Una dichiarazione più che programmatica dunque. Narrare la fondazione di una nazione e le gesta di quegli uomini che l’hanno fatta, attraverso cosa? Un romanzo. Be’ questo è mistificare e Ellroy lo fa benissimo. Tanto che, a sorpresa, l’effetto del libro è proprio quello contrario, ossia far passare la sua versione per quella ufficiale e cioè che Kennedy in realtà sia stato ucciso da una serie di personaggi che volevano la sua morte: la mafia, per la strenua lotta che il fratello Bobby Kennedy gli stava facendo (doveva essere lui, secondo il romanzo, il vero obiettivo del complotto, farlo spaventare); l’estrema destra tradita dalla brutta riuscita della baia di porci e pronta a riprendersi Cuba a tutti i costi; la Cia, l’FBI, insomma tutti avevano giocato la loro parte, era tutta l’America delle lobby e degli interessi che voleva Kennedy giù dal trono. E questa America decide di farlo nell’unico modo in cui fosse capace: con uno spettacolo pirotecnico, durante la celebrazione del re.

A seguito di questi ragionamenti dunque quella che in American Tabloid viene riportata a galla è una storia segreta, quella affidata ad archivi nascosti (la figura dell’archivista nella letteratura e in questi romanzi in particolare rappresenta sempre quella di un custode, non di un semplice funzionario – e lo vedremo anche in Libra), a intercettazioni delicate che nel romanzo vengono riportate, insieme ai titoli dei giornali, a mo’ di documento, come fossero veri e propri reperti, incastrando il lettore nella rete dell’effetto di veridizione.
Come si posiziona il romanzo dunque sul quadrato semiotico sopracitato? Se quello di King voleva smascherare una menzogna, quello di Ellroy vuole portare a galla un segreto, spostandosi dall’asse del Segreto a quello della Verità: l’operazione è quella dello svelamento. Lo scrittore demiurgo pasolinianamente sa e divulga ai suoi lettori la conoscenza. Anche qui i dubbi vengono richiusi e la dimensione della certezza viene ripristinata in pieno. Ma è una certezza per pochi, per eletti. È il segreto sussurrato ad un orecchio.

Chi invece procede verso un percorso diverso è Don DeLillo con il suo Libra, uscito nel lontano 1988, annoverandosi così come il libro più anziano della tripletta. In realtà l’operazione può sembrare simile a quella portata avanti da Ellroy, e cioè rendere storia il romanzo ma ci sono delle componenti che lo portano decisamente lontano, andando addirittura a posizionare il romanzo su una dimensione opposta a quella del maestro del noir. Anche in questo caso il romanzo si muove analizzando le vite e le vicende di tutti coloro che presero parte all’attentato, o meglio di tutti coloro che nutrivano dei rancori verso il presidente o chi per lui (ossia Bobby, lo strenuo e incorruttibile paladino della giustizia). Una numero cospicui di capitoli, introdotti da una specificazione di luogo, vengono dedicati alla figura di Lee Harvey Oswald che viene raccontato dalla sua infanzia fino al giorno in cui imbraccerà il fucile comprato per corrispondenza alla finestra del Texas School Book Depository. Gli altri capitoli, dedicati agli altri uomini, come per esempio Winn Everett, sono introdotti invece da una marca temporale: una data, giorno e mese, l’anno non c’è.

Questo perché uno dei personaggi che ricorre più frequentemente è Nicholas Branch, sfasato temporalmente rispetto agli altri e posizionato quindici anni dopo. Questo personaggio indaga ancora per conto della Cia sul misterioso omicidio: è lui l’archivista, colui che, sommerso dai libri, tenta a distanza di anni di tirare fuori uno straccio di verità da quella complessa matassa di interessi e uomini che volevano morto JFK. Ecco come viene presentato:

Nicholas Branch è seduto nella stanza piena di libri, la stanza dei documenti, la stanza delle teorie e dei sogni. E’ al quindicesimo anno di lavoro, e a volte teme di diventare immateriale. Che stia invecchiando, è certo. Ci sono momenti in cui non riesce a concentrarsi sui fatti in questione e deve tornare più volte alla pagina, al rigo, al dettaglio minuzioso di un particolare pomeriggio. Entra ed esce da quei pomeriggi, nei cieli caldi e sfolgoranti che danno tono e profondità all’angustia dei dati. A volte si addormenta, accasciato nella poltrona, una mano penzolone sul tappeto tessuto su telaio largo. Questa è la stanza in cui si invecchia, la stanza a prova di incendio, inondata di carte.

Il suo ruolo, come detto, è indagare sul materiale che ha disposizione e che gli viene passato da una figura non meglio specificata che lui chiama il Curatore: come fosse una mostra, una galleria, arte e non realtà quella a cui Branch sta lavorando. E la sua presenza, insieme all’assenza di documenti o pseudo-documenti (è Branch solo l’istanza dedicata ai documenti, è lui il filtro, noi non vediamo nulla), è decisiva per l’economia del romanzo, spostandolo su un asse ancora diverso rispetto ai precedenti presi in esame. Ma perché proprio Branch? Perché è lui che esaminando i documenti raccolti, osservando minuziosamente ogni interrogatorio, rapporto o testimonianza, dopo più di quindici anni di lavoro, non riesce ancora ad arrivare a nulla: se qualcosa lo porta verso una direzione, subito dopo appare ciò che la smentisce. La confusione è quella iniziale, la stessa e non può fare a meno di domandarsi, anche lui, se il suo superiore, il Curatore, non stia cercando proprio di sviarlo, per tenere nascosto un evento che il mondo non deve sapere.

DeLillo prova a far muovere il suo romanzo dall’asse del Segreto verso quello della Verità, ma essa appare irraggiungibile, lontana, quasi fosse un’utopia: è il segreto la dimensione del romanzo, non v’è scampo. E con questa mossa, con questa concezione dell’attentato, con questa finale sanzione di inconoscibilità De Lillo riporta il fatto storico in una dimensione romanzesca: fa l’esatto contrario di King e Ellroy, ribalta la situazione, è la storia che diventa romanzo e non viceversa. Ci può essere un risultato più grande per chi fa letteratura?

Di Kennedy non sapremo mai come è andata veramente, sta a noi decidere se credere a qualcuno o qualcosa piuttosto che ad altro. Quello di cui siamo sicuri però è che un evento così, pur nella sua totale drammaticità, non potrà fare altro che generare storie, anche’esse funzione della vita e della morte. La macchina della creazione, per fortuna, non si ferma e non si fermerà.


Facciamoci una partita a Scarabeo. Breve storia della letteratura del Novecento davanti un tabellone.

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Cinquantanove anni fa, il 19 gennaio 1955, veniva messo in commercio Scrabble, forse il più intellettuale dei giochi da tavola. La sua versione italiana, Scarabeo, fu pubblicata qualche anno dopo senza autorizzazione, con le regole leggermente diverse, e rimase in commercio dopo una causa legale.
La letteratura ha omaggiato Scrabble in molti modi. Un articolo del Boston Globe del 2007 metteva in fila almeno una cinquantina di citazioni letterarie. Ne abbiamo tradotte alcune. F
acendo un po’ di mente locale, minimum fax ha pubblicato almeno tre libri Scrabble-Scarabeo in cui viene citato. Magic kingdom di Stanley Elkin, Cercasi batterista, chiamare Alice di Rick Moody, e Si prega di allegare dieci dollari per ogni poesia inviata di Charles Bukowski. Ma, come vedrete qui sotto, Elkin, Bukowski e Moody sono in buona compagnia.

Robert Lowell. “Ero seduto a bocca aperta davanti a un tabellone di Scarabeo, incapace di formare anche la parola più semplice; dovevo essere imbeccato da un’infermiera, anche così non riuscivo a dare nessun senso alle parole che l’infermiera aveva fatto per me” (da Near the Unbalanced Aquarium, il libro di memorie postume di 1955)

Sylvia Plath. ”Mia madre era l’unica in un lungo flusso di visitatori – il mio ex datore di lavoro, la signora di quelli di Christian Science, che camminava sul prato con me e ha parlato della nebbia che sale dalla terra nella Bibbia, e del fatto che la nebbia è l’errore, e che tutti i miei guai sono che ho creduto nella nebbia, e il minuto in cui avrei smesso di crederci, la nebbia sarebbe scomparsa e avrei visto come ero sempre stata bene, e l’insegnante di inglese che avevo al liceo che è venuto e ha cercato di insegnarmi a giocare a Scarabeo, perché pensava che questo potesse far rivivere il mio vecchio interesse per le parole, e Philomena Guinea stessa, che non era affatto soddisfatta di quello che i dottori stavano facendo e continuava a dirglielo. Odiavo queste visite.  di quello che i medici stavano facendo e continuava a dire loro così. Odiavo queste visite.” (da La campana di vetro, 1963)

Vladimir Nabokov. ”‘Lei pensava che avremmo giocato a Scarabeo senza di lei’, disse Ada, ‘o che saremmo passati a qualche ginnastica orientale, che ti ricordi, Van, avevi cominciato a insegnarmi’” (da Ada, 1969) 

Don DeLillo. “Obbediscono alle loro madri. Non s’infilano in una cantina buia senza aspettarsi di essere strangolati da uno zombie. Si benedicono costantemente. E noi, che cosa facciamo? Guardiamo la televisione e giochiamo a Scarabeo. Ecco com’è, figli della luce e le tenebre.”

Patricia Highsmith. “La parola ‘Scarabeo’ fu come una bomba che esplose nella mente o nella memoria di Minderquist. Lui e Julia non giocavano più. Il fatto era che Minderquist non riusciva a concentrarsi o non voleva”. (da “Mermaids on the Golf Course”, 1978)

Douglas Adams. ”Quello che stava facendo era piuttosto curioso, e ed era questo: su un largo pezzo di roccia piatta aveva inciso la forma di un grosso quadrato, suddiviso in 169 quadrati più piccoli, tredici per lato … ‘No’, disse Arthur a uno dei nativi che aveva appena mescolato alcune delle lettere in un raptus di sconforto abissale, ‘la Q vale dieci, ed è su una casella tripla parola, quindi… guarda, vi ho spiegato le regole… no, no, seguimi per favore, metti giù quella mandibola … Va bene, cominciamo di nuovo. E cercate di concentrare questa volta’”. (Ristorante alla fine dell’universo, 1980)

Stanley Elkin. ”La giovane donna [a Buckingham Palace], che non si è preso la briga di presentarsi, lascia [Eddy Bale] a sedersi su una sedia molto alta e elegante accanto a un tavolo da gioco su cui ha apparecchiato un tabellone di Scarabeo. Eddy vorrebbe chiedere del protocollo, ma lei è sparita prima che lui possa anche porre la questione. Bale è in grado di leggere alcune delle parole che i giocatori hanno formato e lasciato lì – ‘contadino’, ‘servo’, ‘primogenitura’ – ma un bambino di forse sette o otto anni, forse un paggio di corte o uno dei giovani reali, arriva vicino a lui, e Eddy distoglie lo sguardo rapidamente via come fosse stato beccato a studiare i segreti di Stato”. (Magic Kingdom, 1985)

John Le Carré. ”Non importa che sono vent’anni più giovane di Pym. Quello che riconosco in Pym è quello che vedo in me stesso: uno spirito così ribelle che, anche mentre sto giocando una partita a Scarabeo con i miei figli, può oscillare tra le opzioni suicidio, stupro e assassinio”. (da La spia perfetta, 1986)

Stephen King.  ”La cosa che Richie ricordava di Jimmy Cullum, un ragazzino tranquillo che portava anche gli occhiali, era che gli piaceva giocare a Scarabeo nei giorni di pioggia. Non poter andare più a giocare a Scarabeo, pensò Richie, e rabbrividì un po’”. (da It, 1986)

Michael Cunningham. “Tutti volevano un drink. E subito se ne occupò Jonathan. Ho capito che era probabilmente per come era cresciuto: proporre di farsi un drink o una partita a Scarabeo una passeggiata nel parco… Si stava coltivando una vita ordinata e precisa come il salotto di sua madre”. (La casa alla fine del mondo, 1990)

Richard Powers. “Dietro la radiazione dell’orrore ce n’è un’altra così grande che richiede alle Agenzie di vietare i fatti. Il drammaturgo del copione della vita è un dado; anche ora che il copione non è stato fissato. Ci sono macchie che cambiano da una lettura all’altra. La spettacolare esplosione della specie è scritta su un tabellone di Scarabeo mandato all’aria. Chi può continuare a respirare se i mutageni sono ovunque nell’aria?” (da Gold Bug Variations, 1991)

Douglas Coupland. “Mia a madre, Jasmine, si è svegliata questa mattina per trovare la parola DIVORZIO scritta al contrario sulla fronte con un grosso pennarello nero… ’È qualcosa a che fare con una partita a Scarabeo, Tyler. La spiegazione era confusa’, disse Daisy. ’Che cosa terribile. Che cosa orribile da fare [per Tyler e il patrigno di Daisy]. Davvero abietta. Mi sento male’”. (da Generazione Shampoo, 1992)

Rick Moody. “Dopo le superiori le cose presero a andare veramente male …. per dirla tutta, mi sono affidato a un ospedale psichiatrico nel Queens, sostenendo ingenuamente che la mia sensibilità stava diventando un peso per me. Questo non diede un nome al mio problema. Imparai a giocare a Scarabeo in ospedale, e imparai, un pochino, a prendermi cura del benessere di altre persone”. (da Cercasi batterista, chiamare Alice, 1992)

Michael Chabon. “Passai un paio d’ore davanti alla televisione con Philly, a guardare Edward G. Robinson che se ne andava in giro per la faraonica Menfi in sandali. Poi mi lasciai trascinare in una triste partita a Scarabeo con Irv e Irene” (da Wonder Boys, 1995)

Alice Munro. “I pensieri che le venivano in mente, di Jeffrey, non erano veramente pensieri – erano più simili alterazioni nel suo corpo. Questo poteva accadere nel mezzo di una partita a Monopoli, a Scarabeo, a qualche gioco con le carte. Lei continuò a parlare, ascoltare, lavorare, tenere traccia dei bambini, mentre alcuni ricordi della sua vita segreta la disturbavano come un’esplosione.” (da Il sogno di mia madre, 1998)

Jonathan Franzen. “Robin distolse lo sguardo, verso la strada, a una fila di palazzi morti con cornici di lamiera arrugginita. ‘Brian dice che sei molto competitivo …. Ha detto che non vorrebbe giocare a Scarabeo con te.’” (da Le correzioni, 2001) 

E per finire una poesia di Charles Bukowski, tratta da Si prega di allegare dieci dollari per ogni poesia inviata

Una tapparella abbassata. 

quello che mi piace di te
mi disse lei
è che sei rozzo –
ti guardo mentre stai seduto lì
con una lattina di birra in mano
e un sigaro in bocca
e guardo
la tua pancia zozza e pelosa
che ti sporge
da sotto la camicia.
ti sei tolto le scarpe
e hai un buco
nel calzino destro
riempito dal ditone
che esce fuori.
non ti fai la barba da
4 o 5 giorni.
hai i denti gialli
e le sopracciglia
ti penzolano
tutte attorcigliate
e hai abbastanza
cicatrici
da far cacare sotto
dalla paura chiunque.
c’è sempre
un anello di sporcizia
nella tua vasca da bagno
il tuo telefono
è coperto di
grasso
e
metà della robaccia
che hai in frigorifero
è marcia.
non lavi mai
la macchina.
sul pavimento
ci sono giornali
di una settimana fa.
ti leggi riviste
sconce
e non hai neanche
la tv
ma fai le
ordinazioni dal
negozio di liquori
e lasci una buona
mancia.
e la cosa migliore
è che non fai nulla per convincere
una donna a
venire a letto
con te.
non sembri per niente
interessato
e mentre ti parlo
non dici
una parola
non fai che
guardare in giro
per la stanza o
ti gratti il
collo
come se non mi
ascoltassi.
tieni un vecchio
asciugamano bagnato
nel lavandino
e una foto di
Mussolini
attaccata al muro
e non ti lamenti
mai
di niente
e non fai mai
domande
e ti
conosco da
6 mesi
ma non
ho idea
di chi sei.
sei
come
una tapparella abbassata.
ma è questo
che mi piace di
te:
che sei rozzo:
una donna
può andarsene
dalla tua
vita e
scordarsi di te
in un attimo.
a una donna
può andare solo
MEGLIO
dopo essere
stata con te,
tesoro.
tu devi
essere
la cosa più bella
che sia mai
capitata
a
una ragazza
che si trova tra
una storia finita
e una da cominciare
e non ha niente
da fare
per il momento.
questo cazzo di
scotch
è davvero buono.
facciamoci una partita
a Scarabeo.

Il ritorno di Stephen King

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Questo pezzo è uscito su Europa.

L’incubo puro non è trovarsi davanti a una situazione angosciosa, è quando il tormento sorge di nuovo all’orizzonte mentre si pensava di esserselo lasciato alle spalle per sempre. È stato Stephen King a consegnare ai lettori di tutto il mondo questa tragica intuizione, nel suo capolavoro It, del 1986.

La manifestazione del Male lì era incarnata in un pagliaccio che terrorizzava dei ragazzini del Maine. I giovani combattono il Male fino a convincersi di averlo sconfitto una volta per tutte. Ma quando passano ventisette anni e loro sono diventati uomini e donne mature, il Male torna di nuovo. È questa stessa dinamica ad animare il nuovo romanzo di Stephen King, Doctor Sleep (Sperling & Kupfer, 517, euro 19,90).

Il protagonista è Danny, il celebre bambino di uno dei classici dell’orrore moderno, Shining, che, con la versione cinematografica, Stanley Kubrick ha partecipato a scolpire nell’immaginario collettivo. La vicenda è nota. In Shining uno scrittore trascina la famiglia all’Overlook Hotel per fare il guardiano durante il periodo invernale.

La famiglia di Jack Torrance rimarrà bloccata dalla neve, vivrà una storia di sangue e fantasmi e il piccolo figlio, Danny, scoprirà di avere una strano potere, la “luccicanza”, che gli permette di vedere cose che gli altri non vedono e di comunicare attraverso la telepatia. Quando il lettore del 1977 finì quel libro tirò un respiro di sollievo. L’incubo era finito. Con Doctor Sleep, invece, incubo è puro perché quel terrore bussa per la seconda volta.

«Angosciato di accontentare il mio nuovo editore – scrive Stephen King in una nota alla fine di Doctor Sleep in cui si riferisce al passaggio all’editore Scribner del 1998 – mi imbarcai in una serie di incontri nelle librerie. Durante una sessione di autografi, un tizio mi chiese: “Ehi, sai che cosa sia capitato al bambino di Shining?”». È a questa domanda che risponde questo seguito.

I superstiti dell’incendio dell’Overlook sono la moglie di Jack, l’indimenticabile Wendy, il prodigioso Danny e Richard Halloran, il cuoco che corre a salvare Danny spinto da “forte presentimento” che la famiglia si trovasse nei guai.

Quando si apre Doctor Sleep sono passati pochi anni. Danny ricomincia ad avere le spaventose visioni che lo traumatizzavano durante la grande nevicata all’hotel. Ritroviamo subito Halloran che gli spiega cosa accade ora. Alcuni spiriti non vogliono lasciare questo mondo, perché «sono sicuri che ci sarà qualcosa ancora peggiore ad attenderli. La maggior parte di loro deperisce e scompare, ma alcuni scovano del cibo». «Ecco cos’è la luccicanza per quei fantasmi: un boccone delizioso».

Halloran dà indicazioni a Danny su come convivere con questi fenomeni. Ma siamo in un romanzo di Stephen King, e quindi è inevitabile che le cose tendano a degenerare.

Da adulto, Danny vive nel New Hampshire, lavora in un ospizio e diventa il Doctor Sleep. Tornano le bufere di neve, e anche «la luccicanza era tornata, e in piena forma», perché «la partita con l’Overlook era ancora aperta».

L’orrore dilaga presto, una bambina di cinque mesi prevede gli attacchi alle torri gemelle, attacchi previsti alche dal Vero Nodo, un gruppo di persone che viaggia per le autostrade americane con l’aspetto del Popolo dei Camper e che sarà la nuova incarnazione di ciò che Dan dovrà sconfiggere.

Più passano gli anni, più King riesce a fondere il racconto della paura con riflessioni più ampie che si attivano in tipiche storie “di genere”. Rispetto a ShiningDoctor Sleep è un romanzo corale (i pochi personaggi del primo libro qui sono un esercito), è meno claustrofobico e più nostalgico.

È inevitabile leggere Doctor Sleep anche come una riflessione sulla letteratura. Ci sono personaggi che si cibano delle visioni altrui (i lettori?) e Danny scoprirà che il vero senso del suo potere è aiutare gli altri (che fanno gli scrittori se non usare il talento come forma di dono?).

Tutta la letteratura mondiale non racconta altro se non il conflitto tra il Bene e il Male. Ed è la fedeltà con cui King riscrive questa inesauribile battaglia ad averlo fatto transitare prima da autore di romanzi dell’orrore a romanziere di culto, poi a scrittore riconosciuto e stimato da colleghi e critici in tutto il mondo. Ogni volta che torna King, torna l’incubo. E si riaffaccia anche la “luccicanza” della letteratura. Quella capacità di leggere nei pensieri dei lettori e aiutarli a convivere anche con i loro mostri interiori.

Mondadori compra Anobii (party like it’s 2009)

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Un comunicato stampa Mondadori diffuso questa mattina annuncia: “Il Gruppo Mondadori ha acquisito da Anobii Ltd. il marchio e gli asset di Anobii, la piattaforma mondiale di social reading che vanta più di un milione di utenti nel mondo e la sua base più forte, con 300mila lettori, proprio in Italia.”

Circa un anno fa pubblicai qui La triste storia del social reading in Italia – Parte 1 (Anobii), al quale mi permetto di rimandare per un’analisi un poco dettagliata su quel sito e le sue traversie; Mario Alemi, già Head of Business Intelligence di Anobii, commentò per primo così: “Se Amazon ha ora comprato Goodreads –mi ripeto– Feltrinelli o Mondadori potevano comprare Anobii. [...] Nessun editore italiano ha pensato che avere una milionata di lettori che esprimono il loro spassionato giudizio su libri vecchi e nuovi è una miniera d’oro. *Non* perché si possa vendere a questi lettori il libro del momento, ma per capire su che libri investire, quali nicchie di mercato sono rimaste insoddisfatte (chi vorrebbe vedere non solo Fabio Volo in libreria, per esempio), o come fare a svuotare magazzini inutilmente pieni con offerte speciali, et cetera. Speriamo, come dici, che (con anni di ritardo) qualche possibile acquirente italiano si svegli…”

Con un anno di ritardo sugli anni di ritardo Mondadori si è svegliata. Possiamo però far finta di essere nel 2009, quando Anobii esplode in Italia, e sull’acquisto scrivere: ”si comincia a sperimentare, partendo ovviamente dalle potenzialità ‘social’ offerte dalla rete”; e insistere sulla “novità comunicativa non da poco dell’annuncio via Twitter” (qualche minuto prima del comunicato stampa). Mentre il punto critico sarebbe la “spietata concorrenza di ‘giganti’ come Twitter, Facebook e Instagram”. Questa analisi è per me scorretta: su Instagram e Pinterest posto tra le mille altre foto qualche copertina e sui social network generalisti Twitter e Facebook parlo di diecimila cose e pure di libri, ma un social network verticale, specializzato sui libri, come Goodreads mira a un pubblico specifico di lettori forti (e di autori) che cerca un altro tipo di esperienza. Su Goodreads ho la mia biblioteca “virtuale”, posso scrivere recensioni, entrare in gruppi di discussione tematici (ad es. su Stephen King), seguire le letture e l’attività dei miei amici, anzi posso seguire gli stessi scrittori iscritti al sito (ad es. Stephen King) e partecipare a molte altre iniziative, e tutto questo in un ambiente dedicato solo ai libri. Con Facebook e Twitter vi è molta più integrazione che competizione, anche nel banale senso tecnico del postare automaticamente su quei due social onnivori i contenuti del social specializzato.

Nell’ultimo anno ho ricevuto in email molte notifiche di nuovi amici su Goodreads, quasi sempre utenti di Anobii che, nonostante le perdite del grafo sociale e di altri dati nel trasloco digitale, hanno preferito spostarsi e ricreare in un nuovo luogo la comunità di partenza; Anobii aveva infatti raggiunto vette di inefficienza tali da esasperare il più paziente e fedele degli iscritti. Inoltre, come accennava Alemi, nell’ultimo anno Goodreads, il più grande sito di social reading al mondo, è stato integrato nell’”ecosistema” della lettura di Amazon Kindle, ha oggi oltre 25 milioni di utenti e continua ad espandersi.

L’acquisto di Mondadori, per una cifra imprecisata, è in ovvio clamoroso ritardo: il leader mondiale è entrato con tutto il suo peso e la sua efficienza in un mercato lasciato scoperto, mentre Anobii continuava nella sua decadenza e soprattutto spingeva alla migrazione (o semplicemente alla disaffezione) buona parte della comunità. Sono certo che, fuor di annunci ufficiali, in Mondadori siano per primi ben consapevoli che non sarà facile rinnovare la piattaforma, dal punto di vista tecnico molto obsoleta e mancante di troppe funzioni, e riconquistare gli iscritti. Perché, naturalmente, quello che si è comprato sono gli utenti italiani, anzi il ricordo degli utenti italiani nel momento di maggiore spinta verso l’alto (fine 2009-primi mesi del 2010), lettori forti che amano il libro di carta e non sono però troppo contrari al digitale (usano un sito di social networking per i libri). Lettori che fanno un sacco di lavoro per gli autori amati e danno un mare di informazioni su di sé.

In teoria il sistema “discussioni e consigli su Goodreads – acquisti col Kindle su Amazon” potrebbe essere replicato per “Anobii – Kobo – Mondadori” e chiaramente tutto quello che scriveva Alemi rimane vero. Le opportunità di monetizzazione dell’attività gratuita degli utenti ci sono ancora, in potenza, sia nella vendita diretta che indiretta (ad es. mettere a frutto i loro dati) e questa è la precondizione economica perché Anobii possa ritornare a essere, per la soddisfazione dei vecchi e nuovi iscritti, un luogo vivo dove discutere, scoprire, socializzare libri ed esperienze di lettura.

Intervista a Teresa Ciabatti

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Piaccia o non piaccia, il regista Paolo Sorrentino ha uno stile filmico riconoscibile ed è bravissimo a raccontare la sgradevolezza e il putridume “cafonal” di una certa Italia. Ebbene, Teresa Ciabatti, alla sua terza prova romanzesca, è senza dubbio il suo corrispettivo femminile e letterario. Con una scrittura che è ancora più inconfondibile e feroce – e che non scivola mai nel grottesco, e tanto meno si arrocca dietro il giudizio morale – Teresa Ciabatti ha scritto, con un misto di affetto e crudeltà, il libro definitivo sul “generone” romano. “Il mio paradiso è deserto” (Rizzoli, 17 euro, 285 pagine) è la storia di una famiglia, i Bonifazi, milionari grazie al business della spazzatura. Nella foto – ritoccatissima – apparsa su “Class”, li vediamo seduti sul divano bianco nella loro villa sfarzosa alle porte della Capitale. Marta Bonifazi, la figlia ventiduenne, è l’unica che stona in quell’atmosfera stucchevole che gli americani chiamerebbero semplicemente cheesy. Perché Marta è obesa. Il suo corpo, grasso e deforme, porta con sé tutte le ipocrisie della sua finta famiglia felice, un corpo che Marta odia e che tenta di prosciugare con la liposuzione, un corpo che nasconde ormai da tre anni, perché sono tre anni che Marta non mette piede fuori di casa. Ricco di colpi di scena e sorretto da una trama sorprendentemente tesa e misurata, il libro piacerà molto ai lettori di Alice Munro e Joyce Carol Oates, ma anche a quelli di Stephen King.

“È una storia d’amore”, ci confonde le idee Teresa Ciabatti davanti a una centrifuga alla carota in un caffè romano. Nata a Orbetello 38 anni fa e sposata con lo scrittore e sceneggiatore Antonio Leotti, Teresa Ciabatti ha scritto anche per il cinema, con Luca Lucini e Susanna Nicchiarelli.

In che senso una storia d’amore?

Ho una visione un po’ diversa del bene e del male. Credo che il bene stia nelle piccole cose. Questa, per me, è la storia sentimentale di una famiglia anaffettiva.

Però il tono è quello di una black comedy…

Sì l’idea della black comedy mi piace molto. Io l’ho scritto con il punto di vista dell’arrampicatrice sociale, la prospettiva di chi ha una reale ammirazione per la ricchezza. Arrivata da Orbetello a Roma a 16 anni, mi sono trovata ai Parioli, in un mondo che mi escludeva e in cui io cercavo di entrare.

“Il mio paradiso è deserto” è anche una celebrazione di un fallimento, quello della famiglia.

Penso che continuerò tutta la vita a scrivere di famiglie. L’amore dei genitori è sempre in bilico tra desiderio di protezione e distruzione. Ci mette un secondo l’amore, a distruggere, ed è difficile che non succeda.

Nel libro ci sono vari personaggi dell’Italia corrotta. Ha preso ispirazione dalle cronache?

In parte sì. Per creare il personaggio di Attilio Bonifazi ho ripensato alla storia di Angelo Balducci, ex sottosegretario ai Lavori pubblici che si faceva portare a casa i ragazzi immigrati promettendo loro permesso di soggiorno. L’intercettazione riportata nel libro è quasi identica a quella reale. Ma naturalmente c’è in lui anche molto di Manlio Cerroni, il padrone della più grande discarica d’Europa a Malagrotta, l’uomo più ricco del Lazio. Oggi è chiusa, ma Cerroni è responsabile di aver inquinato un intero quartiere e di aver ostacolato la raccolta differenziata a Roma. Il vecchio senatore Giovanni, assomiglia a Emilio Colombo, il senatore che trovarono in possesso di cocaina e disse che era per uso personale.

Se il suo libro fosse un film chi sognerebbe a dirigerlo?

Sorrentino sarebbe l’unico regista a mantenere obesa Marta, la protagonista. E poi Sorrentino sa raccontare gli eccessi con misura, le cose sgradevoli con amore. E io non immagino un film sul degrado, al contrario immagino perfino le scene sulla spazzatura come una roba tutta colorata. Anche Saverio Costanzo mi piace molto.

Da vera scrittrice detesta viaggiare, è vero?

(Sorride) Il mio mondo finisce a Roma. Non sono mai stata a Napoli. Direi di sì, odio viaggiare: mi mette un’ansia tremenda.

Donna e il cardellino

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Ieri Donna Tartt ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa con il romanzo Il cardellino (Rizzoli). Pubblichiamo la recensione di Nadia Terranova uscita su IL a novembre 2013. (Fonte immagine)

di Nadia Terranova

Inizia come una fiaba, con il sapore di una festa interrotta, guastata da un maleficio che cambia per sempre la vita del protagonista. Solo che The Goldfinch, il nuovo romanzo di Donna Tartt (Little, Brown & Co. 2013, uscirà per Rizzoli a marzo 2014 con il titolo Il cardellino) non parla di una principessa sull’altare o di una neonata in attesa del battesimo ma di Theo Decker, tredicenne figlio di genitori separati, che un giorno in cui è stato sospeso da scuola va a una mostra di pittura insieme alla madre; il suo castello è il Metropolitam Museum di New York («A me – un ragazzo di città sempre confinato tra quattro mura – interessava soprattutto per gli spazi enormi»); a esplodere non è l’ira di una fata esclusa dalla lista degli invitati ma la bomba di un attentato terrorista.

Nel caos dopo la deflagrazione, Theo si ritrova accanto a un uomo agonizzante da cui riceve un anello d’oro e un incarico enigmatico. Fine degli archetipi fiabeschi: il protagonista viene scaraventato in un romanzo per adulti e in un mondo improvvisamente contemporaneo e ostile.

Theo, entrato al Metropolitan da adolescente qualunque, ne esce come un semi-orfano invecchiato: ha perso la madre, ha visto morire lo sconosciuto cui si è aggrappato dopo la tragedia, ha camminato – letteralmente – su un certo numero di cadaveri. Andando via porta con sé The Goldfinch (Il cardellino), un quadro del 1654 di Carel Fabritius, allievo di Rembrandt. A poco a poco il cardellino (è buffo come il sostantivo italiano perda la forza di quello inglese: un peccato di cui non si potrà incolpare nessun traduttore) diventa il mistero in cui Theo può specchiarsi e forse riconoscersi. In fondo è stata la madre, appassionata di Fabritius, a proporgli di andare al Met quel giorno e le circostanze in cui è morta sono simili a quelle in cui è morto il pittore, vittima, insieme a tante sue opere, dell’esplosione di un magazzino di polvere da sparo.

Mentre incontra la realtà (adulti inadeguati, falsari, droghe) Theo trova come uniche vie di fuga il sogno, l’arte e l’amore ossessivo per una ragazza bellissima di nome Pippa. Più ha a che fare con un padre alcolizzato che lo ha già abbandonato una volta da bambino, più il ricordo della madre si idealizza e torna a tormentarlo, mentre la New York protettiva e magica dell’infanzia si trasforma nella Las Vegas del gioco d’azzardo. Un po’ Pip di Grandi speranze, un po’ Oliver Twist, il nostro eroe onora lo spirito dickensiano del romanzo lottando per formare la propria personalità, cercando la sua strada in un mondo che non sa far altro che ferirlo.

A Las Vegas Theo incontra Boris, un altro adolescente alla deriva (non esistono adolescenti che non lo siano, però loro lo sono più di altri), e i due diventano subito amici. Quando si parlano per la prima volta, Boris chiama Theo Harry Potter deridendolo per come è vestito mentre Theo nota che la voce di Boris, oltre a un forte accento australiano, ha «una sfumatura da Conte Dracula, o forse da agente del Kgb». Si prendono in giro, quindi si scelgono. Secondo Stephen King, autore di una recensione entusiasta, le dinamiche fra i due adolescenti sono raccontate con una precisione miracolosa, da lui ritenuta quasi impossibile per un’autrice. Un dettaglio che ritorna nella vita della Tartt: ha recentemente dichiarato che nel 1992, all’epoca del suo esordio, un importante editor l’aveva scoraggiata dicendole che non esistono romanzi di successo scritti da una donna che assume il punto di vista di un uomo. Ventuno anni dopo, Dio di illusioni è diventato il bestseller che conosciamo e lei può permettersi di fare il bis con una nuova voce narrante maschile. Tartt non specifica se quell’editor lavorava da Knopf, che pubblicò il libro (raccomandato a un agente letterario da Bret Easton Ellis), fatto sta che nel frattempo ha cambiato editore.

In The Goldfinch la storia viene raccontata da Theo adulto, rinchiuso ad Amsterdam in un albergo quattordici anni dopo l’attentato, e questa misteriosa reclusione aggiunge alla storia la dinamica del thriller. Tornando indietro nel tempo con Theo, parteggiamo per lui come un tempo abbiamo tifato per Holden (anche se il Salinger di riferimento, citato a pagina 17, è Franny e Zooey) e restiamo dalla sua parte anche quando l’ironia viene a mancargli lasciandolo fragile e disorientato. Accettiamo che la sua storia di formazione sia morale, sebbene mai banalmente moralista, proprio come nei racconti di Kurt Vonnegut, e abbiamo la sensazione che in questa scelta poco ammiccante dell’autrice ci sia qualcosa di coraggioso, qualcosa che la nostra letteratura ha perso. L’unico senso che possiamo e forse dobbiamo dare al nostro mondo è raccontarlo a qualcuno che amiamo («Ho scritto tutto questo, stranamente, con l’idea che un giorno Pippa lo leggerà – cosa che ovviamente non accadrà mai»).

Può sembrare curioso che in un romanzo dichiaratamente dickensiano siano così riuscite le descrizioni della ricchezza, dell’eleganza. Ma sappiamo già, perché ce l’ha spiegato Flannery O’ Connor, che agli americani non è dato saper raccontare la vita dei poveri (di contro, nessun europeo ha mai raccontato il lusso come Fitzgerald). In The Goldfinch, appena incontriamo Hobie con la sua sfarzosa vestaglia di seta ci aggrappiamo speranzosi a lui. Il suo affascinante negozio di antiquariato e perfino il suo appartamento, dove risuonano rumori fuori moda come lo scricchiolio del pavimento e il ticchettare degli orologi per i quali in un attimo «ti ritrovi nel 1850 o giù di lì», diventano le nostre botteghe dei giocattoli, ci riportano alla dimensione fiabesca che abbiamo perso. Al contrario di quanto avviene con i membri della benestante famiglia Barbour cui Theo si appoggia subito dopo la tragedia, di Hobie sentiamo di poterci fidare grazie a quell’istinto coltivato da bambini, quando, nella sterminata letteratura di orfani cui disponevamo in biblioteca e alla tv, da Huckleberry Finn a Candy Candy, eravamo subito in grado di riconoscere i ricchi cattivi dal benefattore che avrebbe aiutato il nostro beniamino.

Con l’ultima pagina, non è solo a Theo che diciamo addio: sappiamo che dovremo pazientare a lungo prima di ritrovare un nuovo universo creato dalla colta, malinconica raffinatezza di Donna Tartt. L’autrice ha sempre dichiarato che avrebbe scritto solo cinque romanzi, uno per ogni decade della sua vita adulta. The Goldfinch è il terzo, dopo Dio di illusioni (1992) e Il piccolo amico (2002), in Italia tutti tradotti da Rizzoli. Arriva con un anno di ritardo ma perfettamente in tempo per i cinquant’anni dell’autrice, nata nel 1963. La battuta più frequente fra i suoi detrattori è: «E ci ha messo dieci anni a scrivere questa roba?». I fan possono sperare che la risposta sia no e che, arrivata a settant’anni, Donna Tartt apra i cassetti rivelando di avere bleffato.

Dalla forma di formaggio alle forme di cultura, e ritorno

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galbani

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di Lanfranco Caminiti

«Non era senza un vero dispiacere che per l’addietro, sostando davanti al negozio dei principali salumieri delle nostre città, non si potesse scorgere alcun formaggio di lusso che portasse un nome italiano. Fui il primo che, dopo lunga esperienza, riuscii a soppiantare l’importazione estera, mettendo in commercio i miei formaggi di lusso, uso Francesi»[1]. Parole di Egidio Galbani, lombardo, l’inventore del Formaggio del Bel Paese.

Con spirito che potremmo definire caseario–patriottico Egidio Galbani agli inizi del Novecento, in un tempo in cui i formaggi erano ancora perlopiù artigianali — la Valsassina è la “terra” da cui vengono le famiglie Cademartori, Ciresa, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Mauri — e la cui distribuzione era limitata all’ambito locale, confeziona un prodotto per la tavola fabbricato in uno stabilimento industriale, appoggiandosi alla rete ferroviaria che andava irrobustendosi e corroborandola con una propria distribuzione attraverso furgoncini, e sostenendolo con un’innovativa campagna pubblicitaria: un successo enorme durato un secolo, oggi la Galbani è “straniera” come tanti altri prodotti italiani, della francese Lactalis dal 2006 [gli “uso Francesi” si sono riappropriati dell’imitazione italiana]. Davvero un grande spirito imprenditoriale, un “capitano coraggioso”.

Il vero colpo di genio di Galbani fu il confezionamento, quello che oggi chiamiamo packaging — qui non si parla di vermi[2] e di metodologia della storia. Sulla rotonda forma di formaggio, venne applicata un’etichetta con la cartina dell’Italia — il Bel Paese, appunto — e la faccia austera e rassicurante di un signore. Che non era l’Egidio Galbani stesso, ma l’abate Stoppani.

A 24 anni, lecchese, nel 1848, anno della sua consacrazione a sacerdote, Stoppani è tra i seminaristi sulle barricate delle Cinque Giornate a Milano, e dietro le piccole mongolfiere che si sollevano per annunciare la rivoluzione in città e chiedere aiuto alle campagne c’è anche la sua formazione scientifica. Rosminiano e manzoniano, naturalista, professore di Geologia a Pavia nel ’67, passa poi al Politecnico di Milano e quindici anni dopo diventa direttore del Museo Civico di scienze naturali. È anche fondatore della sezione milanese del Club Alpino Italiano. Il suo libro, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia, è della metà degli anni Settanta, e racconta di un viaggio che partendo dalla sua Lombardia lo porta giù «a balzelloni» fino all’Etna. Il racconto di questo viaggio naturalistico è rivolto «agli institutori», con l’intento di bilanciare le belle lettere attraverso la sensibilità tecnico–scientifica. Il dispositivo fabulatorio è quello delle narrazioni a veglia: ventinove serate di un lungo e freddo inverno lombardo, in cui l’io narrante racconta a dei ragazzini per ogni serata un luogo e le sue meraviglie [per dire: le prime sette sono dedicate alle Alpi, l’VIII alle Prealpi, dalla XXIV alla XXVII al Vesuvio e le ultime due, la XXVIII e la XXIX all’Etna, tutti luoghi davvero visitati dallo Stoppani di persona][3].

Anche lo Stoppani, come il Galbani, è animato da italianità: «Vedete – dice rivolto ai ragazzi che lo ascoltano –, voi siete come siamo noi italiani in generale. Il bello, il buono, l’utile, tutto ci deve venire d’oltremare e d’oltre monti. Non dico che noi dobbiamo credere di posseder tutto, e di poter fare senza del molto che ci può venire altronde. Sarebbe stoltezza […] Ma ciascuno deve anzi tutto fare i conti in casa propria: ché il cercare l’altrui, mentre si possiede del proprio, è vergognosa mendicità».

A rigor di logica, se faccia da letterato aveva da esserci sulla forma di un formaggio dal nome Bel Paese doveva essere di Dante: «Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ‘l sì suona»[4], o del Petrarca: «il bel paese / ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda e l’Alpe»[5], che avevano inventato la locuzione. Credo che nella scelta di Galbani verso lo Stoppani abbia giocato una declinazione “tecnica”, una rivendicazione industriale delle lettere, una considerazione solida delle cose piuttosto che effuse di allori. Inoltre, quando Galbani decide questa nominazione colta d’un formaggio, il libro dello Stoppani aveva venduto centinaia di migliaia di copie e era arrivato alla 60° edizione: un successo strepitoso durato decenni. Un vero libro di formazione “nazionale”. Un veicolo commerciale di grande popolarità, quindi. Il target — diremmo oggi — di Galbani per il suo formaggio era la stessa platea di lettori dello Stoppani: il ceto medio che si affacciava contemporaneamente alla cultura e ai formaggi, forse entrambe le cose, per gli italiani del tempo, «di lusso, uso Francesi». Oltre a essere la “traduzione” di un formaggio dal francese all’italiano, la faccia dell’autore del Bel Paese su un formaggio che si chiama Bel Paese gioca, forse inconsapevolmente, sulla natura intertestuale del linguaggio con una mise en abyme [nella critica letteraria, la mise en abyme indica un particolare tipo di “storia nella storia”, in cui la storia raccontata — livello basso, il formaggio — può essere usata per riassumere o racchiudere alcuni aspetti della storia che la incornicia — livello alto, il libro].

Un formaggio futurista?

Per quanto si sarebbe preso del “passatista” da Marinetti, a modo suo Galbani col formaggio letterato apre forse la strada al futurismo che con la pubblicità industriale ebbe un rapporto passionale e profondo. Non solo Depero fondò nel 1919 la Casa d’arte Futurista, che funzionava da agenzia pubblicitaria, ma collaborò a lungo con la Campari per cui creò una serie di importanti annunci, un progetto di Padiglione e nel 1926 portò alla Biennale di Venezia un dipinto intitolato Squisito al Selz; Marcello Dudovich collaborò per circa venti anni con i Grandi Magazzini Mele di Napoli che avevano importato e riprodotto in Italia l’esperienza dei grandi magazzini Lafayette [ancora «gli uso Francesi»], lavorò per la marca Zenit e instaurò una proficua collaborazione con i magazzini La Rinascente [nome inventato dal Grande Vate D’Annunzio]; la AEG pubblicizzò una lampadina con uno slogan marinettiano: «Uccidiamo il chiaro di luna». Molti altri — tra cui Nicolaï Diulgheroff, Prampolini, Farfa, Giacomo Balla, Bruno Munari — produssero straordinari oggetti pubblicitari[6].

A prima vista, qui ancora siamo in quel rapporto fra arte e pubblicità “ottocentesco”, quello di Aristide Bruant che si faceva dipingere i cartelloni da Toulouse Lautrec; insomma, nonostante ci siano delle ragioni, come è stato detto, nel definire questa disposizione futurista alla pubblicità come un canto, un’ode, «una celebrazione dell’epos industriale»[7], sembrerebbe ancora un rapporto da belle époque, quello proprio della nascita del poster, de l’affiche. Oggi, ne abbiamo degli esempi tecnologicamente ammodernati di questa logica, che so, Wim Wenders che presenta a Berlino lo smartphone Galaxy Note 10.1 della Nokia, con un piccolo cortometraggio chiamato Recreate Berlin, un’opera girata e montata in cinque giorni tramite proprio quell’apparecchio. Si chiama product placement, adesso: vi si sono cimentati tra i più celebrati registi di cinema, da David Lynch a Martin Scorsese a Woody Allen, come peraltro tra i più apprezzati registi italiani [Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores, Gabriele Muccino, Ferzan Ozpeteck, solo per fare qualche nome]. Anche Federico Fellini girò dei famosi spot per Barilla e Campari.

Il futurismo però — il cui Manifesto, com’è noto, fu pubblicato sulla prima pagina de «Le Figaro», il 20 febbraio del 1909, un po’ all’«uso francese», insomma — era più ambizioso. Nel Numero unico futurista Campari del 1931 Depero pubblica il manifesto Il futurismo e l’arte pubblicitaria con una rivendicazione di dignità artistica totale: «Tutta l’arte dei secoli scorsi è improntata a scopo pubblicitario […] l’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria […] Arte fatalmente moderna – arte fatalmente audace – arte fatalmente pagata – arte fatalmente vissuta». Depero produsse in proprio mobili, stoffe, perfino gilet [pardon, panciotti] futuristi.

Non solo Marinetti contribuisce a una poesia pubblicitaria e industriale, con i suoi libri scritti per la Snia Viscosa, Il poema del vestito di latte del 1927 – grafica di Munari – per “cantare” il lanital, una fibra ottenuta autarchicamente dalla caseina [lo spirito caseario–patriottico ritorna, come un’ossessione], e Il poema di Torre Viscosa del 1938: «Tutto è deciso nulla salvò né avrebbe mai salvato gli eroici canneti devoti al languore / Eccole infornate costrette sul sistematico andare senza fine andare del trasportatore a nastro / di gomma funereo / Ingoiamento e digrignare delle tagliere tronfio masticare metallico / Fiato fiato fiato e tutto s’innalza in un immenso fiato nelle bocche prone degli alti silos / Poi giù trituratissima miscela stridulante d’agonie giù nei bollitori rossi ostentati ventri d’acciaio / nella trasparente cattedralica torre / Colori odori rumori di insolenza guerriera». Anche un poeta come Giovanni Gerbino arriva a stilare un suo manifesto della poesia pubblicitaria dove afferma: «Per poesia pubblicitaria non deve intendersi una filastrocca di parole gettate giù obbligatoriamente per cantare con voce lugubre le qualità d’un prodotto industriale o commerciale vergognandosi, infine, d’assumersene la paternità, com’è d’uso, con evidente malafede, in certi rimaioli passatisti, ma vera e propria poesia nel senso più alto della parola […] Esaltare un prodotto industriale o commerciale con lo stesso stato d’animo con sui si esaltano gli occhi d’una donna».

Bisognerà aspettare la pop art per avere questo stesso grado di consapevolezza del rapporto tra cultura e merce, rovesciandolo. Ecco allora apparire, sulle tele degli artisti pop, i simboli delle industrie più note dell’epoca: Coca Cola, Brillo, Campbell ecc., quegli stessi logo che scandivano la vita quotidiana. La pubblicità stessa di un oggetto diventa opera d’arte [per citare qualcosa: Jasper Johns, Painted Bronze (Ballantine Ale Cans), 1960; Andy Wahrol, Close Cover before Striking (Pepsi Cola), 1962; Richard Hamilton, Toaster, 1967].

Fosse stato in Italia, c’è da scommetterci che Wahrol invece della lattina Campbell’s Tomato Soup avrebbe dipinto la forma di Formaggio del Bel Paese di Galbani. Egidio Galbani con la sua forma di formaggio letterato fu perciò un precursore della pop art? O piuttosto un precursore della culturalizzazione pop dell’impresa?

Autarchia culturale e esterofilia

Nel gennaio 1816 esce su «Biblioteca Italiana» il breve saggio di Madame Anne Louise Germaine de Staël, Sulla maniera e la utilità delle Traduzioni, che interviene sulla crisi della letteratura italiana additandone le cause nel neoclassicismo e tanta influenza avrà sulle lettere e i letterati italiani del tempo, fino a dare abbrivio alla svolta del Romanticismo. Scrive la de Staël: «Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dall’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle; non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete, le quali durano nella letteratura come nelle compagnie i complimenti, a pregiudizio della naturale schiettezza»[8].

Esterofilia culturale [anglofila, francofila, germanofila] e autarchia intellettuale si sono succedute e altalenate spesso da allora nel dibattito culturale italiano. Gramsci scrisse pagine belle e profonde in merito in Letteratura e vita nazionale[9]. Siamo stati anglofili: le diciotto edizioni di Self Help, di Samuel Smiles, una sorta di manuale dell’uomo che si fa da sé attraverso la “religione del lavoro”, peana dell’imprenditore dal carattere volitivo e concreto, e non piuttosto amorale e accidioso come i meridionali e i latini, nel 1889 avevano venduto 75.000 copie, un bestseller. Gli inglesi erano considerati «senza dubbio il primo popolo della terra» e per lodare l’industriosità dei piemontesi si diceva di loro — anche il D’Azeglio, lo diceva — che fossero «inglesi italianizzati». Non saremmo mai stati dei veri capitalisti, insomma, e non avremmo avuto chance nella competizione per le colonie, se non li avessimo imitati. Siamo stati germanofili: dopo la vittoria prussiana del 1870 sulla Francia, Francesco De Sanctis, ministro dell’Educazione, richiamandosi ai notevoli risultati ottenuti dalla Germania che aveva dedicato molte risorse all’educazione fisica, cominciò a promuovere una educazione più “virile”.

Lo storico Pasquale Villari parlò di «una grande vittoria dei popoli germanici e protestanti sui popoli latini e cattolici, i quali sembrano per tutto essere in decadenza» e Crispi, che ammirava Bismarck, promosse una «Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo», mentre Carducci inveiva poetando contro quel «vecchio popolo di frati, briganti, ciceroni e cicisbei» che gli italiani non avevano mai smesso di essere. Siamo stati francofili: il francese Alfred Fouillée, agli inizi del Novecento, dopo un lungo e dettagliato esame delle caratteristiche psicologiche dei principali popoli europei, concluse che non c’era alcuna evidenza scientifica che provasse la degenerazione delle popolazioni neolatine e la loro inferiorità nei confronti degli anglosassoni. E d’altronde, la Francia non aveva dispiegato il tipo migliore di colonialismo, più sensibile degli altri ai diritti dei colonizzati? I paladini del colonialismo italiano fecero proprie queste considerazioni, con gran seguito di popolo e di letterati[10].

Siamo stati autarchici [«In alto viaggiare viaggiare senza fine la nuova costellazione le cui stelle formano la parola / AUTARCHIA», F.T. Marinetti»], perlopiù ricalcando lo Stoppani [«Ma ciascuno deve anzi tutto fare i conti in casa propria: ché il cercare l’altrui, mentre si possiede del proprio, è vergognosa mendicità»]. In genere, però, ci siamo attestati, sui caratteri delle varie lingue europee [e delle culture e dei rispettivi popoli], su quanto già scriveva il Muratori nel suo Della perfetta poesia italiana: di Carlo V si raccontava come egli solesse dire che «s’il voulait parler aux hommes, il parleroit françois; s’il voulait parler a son cheval, il parleroit allemand; s’il voulait parler aux Dames, il parleroit italien et s’il voulait parler à Dieu, il parleroit espagnol»[11].

È questa, un’idea d’Europa dura a morire chez nous. È con l’America che cambiano davvero le cose.

Americana e le traduzioni di Vittorini

Americana è un’antologia che raccoglie testi di trentatré narratori americani, dal primo Ottocento fino agli anni Trenta, progettata e organizzata da Vittorini negli anni 1939-40. I vari autori sono inseriti in nove periodizzazioni storico-critiche [Le origini; I classici; Nascita della leggenda; La letteratura della borghesia; Leggenda e verismo; Il rivolgimento delle forme; Eccentrici, una parentesi; Storia contemporanea; La nuova leggenda], presentate da Vittorini con  analisi originali. Inoltre ogni autore è introdotto da una brevissima scheda che ne riepiloga l’attività letteraria. Le traduzioni dei testi sono opera di vari autori, tra cui Vittorini stesso, Montale, Pavese, Moravia.

È ormai sedimentata una vulgata per cui l’intento di Vittorini era far conoscere la letteratura americana in Italia, dove il fascismo aveva quasi imposto una chiusura culturale verso le letterature straniere, come una sfida di libertà contro il regime. La mia personalissima idea è che la cosa sia più complessa e che Vittorini si muovesse su una sottilissima striscia di confine e contasse anche sulla simpatia che dagli Stati uniti si riversava sull’Italia e sulla curiosità di Mussolini verso l’America — la complessità, cioè, non è data solo dalla personalità di Vittorini ma dal rapporto fra il fascismo e gli Stati uniti sino all’ingresso nel conflitto mondiale. Il mito di un mondo nuovo, fatto di voci nuove e forze nuove, che esprimeva “furore”, la condizione di “vitalità” e di “ferocia” che pervade quegli autori, espressione di un vivere forte e primitivo in un mondo tutto da costruire, potevano essere tutti temi che trovavano eco in una certa mitopoiesi del fascismo.

La prima edizione di Americana [1940] fu bloccata dalla censura fascista, che per fare uscire l’opera impose al suo editore Bompiani di eliminare le note scritte da Vittorini e di introdurre una presentazione di Emilio Cecchi, che dava un’interpretazione molto limitativa della letteratura americana, con giudizi negativi su parecchi autori, a esempio Hemingway, e complessivamente sugli Stati uniti. Ma la prima edizione di Furore di Steinbeck è del 1941 [editore, sempre Bompiani], e considerando che il romanzo fosse uscito nel ’39 e avesse vinto il Pulitzer nel ’40 e nello stesso anno Ford ci avesse fatto il film, si può dire che si andava quasi più veloci allora, nelle traduzioni.

Le traduzioni di Vittorini sono spesso poco aderenti, per usare un eufemismo, al testo originale. Voglio riportare un esempio, tratto dal racconto The Gambler, the Nun and the Radio, ovvero Il giocatore d’azzardo, la monaca e la radio che diventa nelle mani di Vittorini Monaca e messicani, la radio. Già nel titolo, il gambler, un messicano, diventa una pluralità di giocatori d’azzardo, anzi di messicani — la monaca, invece, rimane singola.

But Seattle he came to know very well, the taxicab company with the big white cabs (each cab equipped with radio itself) he rode in every night out to the roadhouse on the Canadian side where he followed the course of parties by the musical selections they phoned for. He lived in Seattle from two o’clock on, each night, hearing the pieces that all the different people asked for, and it was as real as Minneapolis, where the revellers left their beds each morning to make that trip down to the studio. Mr Frazer grew very fond of Seattle, Washington.

«Ma Seattle la conosceva bene, la percorreva ogni notte in un taxi bianco che aveva la radio e andava lungo il mare. Viveva a Seattle dalle due in poi, ogni notte, e Seattle era per lui reale come Minneapolis dove i Revelers lasciavano il letto ogni mattina per recarsi allo studio in tram, prima dell’alba. Egli voleva un gran bene a Seattle, sull’Atlantico».

I tagli di Vittorini, che aveva studiato l’inglese da sé partendo dal Robinson Crusoe di Defoe e scrivendo sopra ogni parola del testo quella italiana corrispondente, sono numerosissimi e riguardano sia singoli termini che frasi intere — altro che minimalismo di Carver “prodotto” del suo editor Gordon Lish. Il termine “ballrooms” viene totalmente omesso; vengono eliminate due righe del testo americano [out to the roadhouse on the Canadian side where he followed the course of parties by the musical selections they phoned for]; “Canadian side”, letteralmente “confine sul Canada”, “confine canadese”, viene reso con “andava lungo il mare”; il termine “tram” viene aggiunto probabilmente per venire incontro a un’idea della città americana del lettore italiano; e i revellers [festaioli, modaioli] diventano Revelers, come fosse un gruppo jazz. Anche “Seattle, Washington” viene cambiato in “Seattle, sull’Atlantico”, quando in realtà si trova sul Pacifico[12].

Straordinario, Vittorini reinventò l’America per gli italiani, la rigirò a specchio persino sui suoi confini oceanici. Siamo con ogni evidenza oltre l’altalena fra autarchia e esterofilia [davvero, non so se sia il caso di parlare qui di anglofilia]: una autonomia di scrittura nel tradurre. Chissà cosa ne avrebbe detto la de Staël. Probabilmente avrebbe approvato.

Recentemente[13], Antonio D’Orrico ha confrontato due traduzioni dell’incipit del Grande Gatsby di Scott Fitzgerald, un longseller che ha avuto ulteriore impennata dal film di quest’anno, affiancandole, per sottolineare inorridito come da un libro a 0,99 centesimi [Fitzgerald è ormai fuori diritti] — cheap nel costo ma anche nella traduzione — c’è da aspettarsi ben poco, e che bisogna invece affidarsi alla grande distribuzione e alla qualità delle loro traduzioni. Ecco il famoso incipit: «In my younger and more vulnerable years my father gave me some advice that I’ve been turning over in my mind ever since». Questa è versione della Pivano [appena riproposta negli Oscar] che manda in deliquio D’Orrico: «Negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente». E ecco invece la traduzione da 0,99 centesimi che inorridisce D’Orrico: «Quand’ero più giovane e indifeso, mio padre mi ha dato un consiglio che ho fatto mio da allora». A me non sembra male, e mi chiedo: non è invece che da qualche parte nascosta si vada covando un nuovo Vittorini?

Certo, la Pivano è un monumento nazionale delle traduzioni, oltre che essere stata un veicolo straordinario di attenzione, sensibilità e conoscenza nel portare qui da noi fenomeni e autori sempre nuovi di letteratura americana, dalla Beat generation fino a Jay McInerney e Bret Easton Ellis passando per Henry Miller e Charles Bukowski. Però, qualcosa dev’essersi rotto nel gran flusso di letteratura americana se oggi si scrive così: «Senza dubbio, la letteratura italiana deve aprirsi a orizzonti diversi, guardare al futuro, creare se stessa, autofondandosi, un pubblico a venire… Immettere la letteratura italiana in un’orbita globale significa dover leggere solo DeLillo, Pynchon, Philip Dick, Stephen King, ecc.? Oppure significa riconoscere che Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, ecc. vanno letti in una prospettiva diversa, verificando come oggi, di fronte alla modernità, interagiscono con i lettori e la letteratura?»[14] Sembra — calco un po’ la mano, eh — una Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam [Esortazione a pigliare l’Italia e liberarla dai barbari], del Machiavelli [cap. XXVI del Principe, quello che si chiude con l’invocazione del Petrarca, c’è una circolarità di citazioni, mi rendo conto: «vertú contra furore / prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: / ché l’antiquo valore / ne gli italici cor’ non è anchor morto», All’Italia].

Però, qualcosa dev’essersi rotto nella predominanza anglofona se alla decisione del rettore del Politecnico di Milano che i corsi post laurea vengano fatti esclusivamente in inglese 234 professori e ricercatori dell’Istituto si sono espressi contro, ricorrendo al Tar e firmando un documento – intitolato “Appello a difesa della libertà di insegnamento” – in cui la si considera illegittima perché, tra l’altro, andrebbe contro l’articolo 271 del Regio decreto del 31 agosto 1933, n. 1592[15]. Il provvedimento, in pieno regime fascista, stabiliva che: «La lingua italiana è lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari». Il decreto non è mai stato abrogato formalmente. L’autarchia, come uno spettro, continua a aggirarsi fra noi. O, quanto meno, nelle aule universitarie.

I due «Il Politecnico» e «Il Menabò»

Qui comunque Vittorini ci interessa anche per «Il Politecnico», la rivista prima settimanale poi mensile da lui fondata e pubblicata a Milano dal settembre 1945 al dicembre 1947.

«Il Politecnico» era stata la rivista fondata da Carlo Cattaneo e pubblicata in due periodi, dal gennaio 1839 fino al 1844 e poi dal novembre 1859 fino al 1869, anno in cui si fuse con il «Giornale dell’ingegnere civile e meccanico», per dare vita al «Politecnico. Giornale dell’ingegnere architetto civile e industriale», in un certo senso una logica continuità “tecnica” che sfuma sullo sfondo l’intento “civico”. Gli intenti del periodico vennero spiegati da Cattaneo così: «appianare ai nostri concittadini con una raccolta periodica la più pronta cognizione di quella parte di vero che dalle ardue regioni della Scienza può facilmente condursi a fecondare il campo della Pratica, e crescere sussidio e conforto alla prosperità comune e alla convivenza civile. […] Il bisogno di promovere fra noi ogni maniera d’industrie è ormai troppo manifesto […] Possa il Politecnico arrecare qualche eccitamento e qualche utile consiglio ad una generazione intraprendente, da cui lo Stato sembra potersi attendere nuovi incrementi di opulenza e di splendore»[16]. Per dare ai suoi lettori «la più pronta cognizione delle ardue regioni della Scienza», Cattaneo voleva che gli articoli scritti per «Il Politecnico» potessero essere agevolmente capiti, fino a intervenire sul testo, spesso crudamente, per renderli meglio conformi a questa esigenza di chiarezza.

Il «Politecnico» di Vittorini fu una rivista non solo bellissima nella sua essenziale “povertà” — grafica prima di Abe Steiner e poi di Trevisani, che successivamente disegnò il quotidiano “il manifesto” —, quasi un “programma grafico” di Mondrian o di Rodchenko, ma piena di innovazioni straordinarie, dall’uso delle immagini fotografiche alle illustrazioni, dai fumetti ai dipinti, con poesie, racconti a puntate [a esempio: Per chi suonano le campane, ovvero For Whom the Bell Tolls di Heminway, titolo “al plurale” sicuramente voluto da Vittorini], spaziando dal Giappone alla Grecia, dalla Spagna alla Cina, con inchieste [i primi tre numeri si aprono con una “Inchiesta sulla Fiat”, anticipando i «Quaderni Rossi», con interviste di operai e impiegati] e reportage, dalla Puglia alla Sicilia, e con un linguaggio didascalico dove si spiegava, a esempio, il rapporto tra salari e prezzi o alcune innovazioni tecniche dell’industria: insomma, un programmatico intarsio di linguaggi separati, una operazione narrativa “politecnica”, appunto, sui linguaggi espressivi dell’arte.

Per illustrare gli intenti del «Politecnico» — la “corrente Politecnico”, come poi la definì Mario Alicata, l’occhiuto e sprezzante organizzatore degli intellettuali compagni di strada del Partito comunista, quando scoppiò la polemica tra Vittorini e Togliatti — riporto qui alcuni stralci dell’editoriale del numero 12 dell’8 dicembre 1945[17], Scuola umanistica o scuola tecnica?, di Giulio Preti, [si discusse molto sulla rivista di una necessaria riforma della scuola, con interventi importanti, fra gli altri di Concetto Marchesi] che si apre così: «Il difetto fondamentale dell’orientamento didattico della scuola media odierna è costituito da ciò: che non vi si impara nulla di quello che oggi serve all’uomo moderno e vi si insegnano molte cose inutili…». E prosegue: «Nell’“età della tecnica” l’uomo deve avere una capacità tecnica, ma non perciò cessa di essere uomo. La sintesi è data appunto da una mentalità razionalistica, scientifica, francamente e intelligentemente empirica, che implica e comprende in sé le attitudini tecniche ma le supera in un atteggiamento che diremmo più genericamente pratico».

Pratico, empirico. Sono i contenuti di quella battaglia di poetica che Vittorini poi sviluppò in un’altra rivista di fuoriclasse, «Il Menabò», in particolare nel numero 4 dedicato a Industria e Letteratura. «Il mondo industriale, che pur ha sostituito per mano dell’uomo quello “naturale”, è ancora un mondo che non possediamo e ci possiede esattamente come il “naturale”… Lo scrittore è di fabbriche e di aziende che racconta ma non ha interesse agli oggetti nuovi e gesti nuovi che costituiscono la nuova realtà attraverso gli sviluppi ultimi delle fabbriche e aziende… Lo scrittore parla un linguaggio di simboli per tutto ciò che riguarda le cose nuove e un linguaggio invece di cose (pur se ormai vecchio e invalido, e cioè pseudo concreto) per tutto ciò che riguarda le vecchie cose del mondo preindustriale che tutti continuiamo a vedere con gli occhi dei padri e dei nonni come se l’industria non le avesse, investendole dei suoi ritmi, modificate… E i narrativi, lungi dal trarre un qualunque vantaggio di novità di sguardo (e di giudizio) dalla nuova materia che trattano, sembrano invece trovarsene talmente impacciati che si comportano dinnanzi ad essa come se fosse un semplice settore nuovo d’una più vasta realtà già risaputa e non un nuovo grado, un nuovo livello dell’insieme della realtà umana: riducendosi con ciò a darne degli squarci pateticamente (e pittorescamente) descrittivi che risultano di sostanza naturalistica e quindi d’un significato meno attuale di altri testi letterari che magari ignorano del tutto la fabbrica, del lavoro specializzato, delle strutture aziendali, ecc. ecc. ma ne sono profondamente influenzati per riflesso dei loro effetti sulla condizione dell’uomo in generale»[18].

Il rifiuto della rottura umanesimo/antiumanesimo, l’ostinazione, cioè, a non lasciar considerare la tecnica come parte dell’antiumanesimo, che era stata la prevalente “ideologia del tempo” prima e dopo la riforma Gentile e intorno Benedetto Croce, e lo sguardo fisso sulle profonde trasformazione dell’umano dovute all’industrializzazione con il bisogno di trovare le “parole nuove”, una rappresentazione espressiva della letteratura che sapesse misurarsi con le “cose nuove”, fino quasi a proporre una separazione fra “industria” e “capitalismo”, il fastidio per il naturalismo descrittivo — quello francese dei Zola, delle “miserabili masse” — come per il “romanzo consolatorio” — da Manzoni a Mann, da Pasternak a Tomasi di Lampedusa —, sono i cardini della poetica di Vittorini come organizzatore culturale, come intellettuale militante.

Era l’Italia della ricostruzione, di un fallimento autarchico–produttivo e dello slancio industriale, che si interrogava su quale potesse essere non solo un “modello di sviluppo” ma un “modello di paese” verso il quale andare.

Tanto per esercizio retorico e per gioco di associazioni, potremmo provare a chiederci cosa avrebbero pensato della decisione del rettore e della corporativa opposizione di professori e ricercatori del Politecnico sia Cattaneo che Vittorini.

C’è un passaggio, fra le tante cose dette da Vittorini, che m’inquieta. È tratto da un testo per una progettata rivista internazionale, pubblicato nel «Menabò» numero 7. Eccolo: «Al principio del secolo, e subito dopo la guerra del ‘15–18, o anche sotto il fascismo, si sono avuti parecchi momenti in cui i contadini erano irrequieti, specie i più poveri, ed emigravano all’estero o venivano a lavorare in città. Ma si trattava in genere di correnti che cercavano solo un miglioramento economico, e al fascismo fu facile fermarle: con leggi di polizia, con richiami sotto le armi, e con piccole industrie che incoraggiò a sorgere in numerosi luoghi sperduti specie delle Prealpi, venete, lombarde o piemontesi. Oggi tutte quelle fabbrichette di villaggio difettano di mano d’opera nella stessa misura in cui ne difettano i campi, salvo qualcuna che, divenuta grande azienda, ha finito col trasformare da arcaico in tendenzialmente moderno l’ambiente sociale nel quale era stata inserita allo scopo di tenerlo fermo».

Vittorini stava parlando di Galbani e della sua industria in cui si produceva il formaggio Bel Paese? 

La «Civiltà delle macchine» di Sinisgalli

«Civiltà delle macchine»[19] è una rivista bimestrale, di cultura, su carta lucida, in formato grande, che nasce negli anni Cinquanta come house organ del gruppo industriale pubblico Finmeccanica. Ha come direttore Leonardo Sinisgalli, che aveva già diretto la rivista «Pirelli» e che chiamerà a collaborarvi diverse firme del «Politecnico» di Vittorini [ma ce ne saranno molti altri, per dire qualche nome: Gadda, Buzzati, Moravia, Argan, Giansiro Ferrata, Tofanelli]. «Io volevo sfondare — dirà Sinisgalli in un’intervista del ‘65 — le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. M’ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, ragione e passione, reale e immaginario»[20]. Il primo numero del gennaio 1953 si apre con una lettera del poeta Giuseppe Ungaretti per spiegare la scelta del titolo ma in un certo senso anche il suo progetto: «Caro Sinisgalli […] la rivista che inizia con questo numero le sue pubblicazioni si propone di richiamare l’attenzione dei lettori anche sulle facoltà strabilianti d’innovamento estetico della macchina. Vorrei anche che essa richiamasse l’attenzione su un altro ordine di problemi: i problemi legati all’aspirazione umana di giustizia e di libertà. Come farà l’uomo per non essere disumanizzato dalla macchina, per dominarla, per renderla moralmente arma di progresso? […] Le calcolatrici elettroniche riescono a risolvere come niente equazioni che richiederebbero, se quei conteggi avesse da farli direttamente il matematico, anni e anni di lavoro, e forse gli anni non basterebbero; ma il prodigio non è qui: il prodigio metrico non è tanto nei prodotti di calcolo di quella macchina quanto nella macchina stessa: nei suoi congegni, nelle funzioni che, dai rapporti che tra di essi istantaneamente s’istituiscono, derivano, possono senza fine derivare. In quel prodigio di metrica noi possiamo ammirare il conseguimento di una forma articolata che, per raggiungere la sua perfetta precisione di forma, dovette richiedere ai suoi ideatori e ai suoi costruttori un’emozione non dissimile da quella, anzi identica a quella, cui il piacere estetico dà vita». Sull’«indiscutibile parallelismo» riscontrabile nella più recente operosità artistica con certe configurazioni tecnico–industriali insisteva pochi mesi dopo Dorfles, trattandone come d’una spontanea, creativa colleganza. Nel ‘55 un’esposizione sulle arti plastiche e la civiltà delle macchine verrà ideata a Roma, Galleria d’arte moderna, da Sinisgalli e da Enrico Prampolini: quadri e sculture si disporranno accanto a utensili d’acciaio, organi di trasmissione e colate di fonderia, così da svelare la propria «viscerale parentela». Le copertine della rivista sono bellissime. A volte rappresentano quadri di artisti contemporanei, a volte sono fotografie di oggetti naturali, che subiscono un processo di straniamento e si mostrano nella loro valenza artistica. La copertina del numero due del 1957 ha per titolo Trucioli della Terni ed è costruita con la fotografia di semplici e normalissimi trucioli residui della lavorazione dell’acciaio.

In un articolo del febbraio 1976 su «Il Mattino» di Napoli, Sinisgalli descrive La decadenza di Milano: «L’industria [...] è scaduta progressivamente perché è venuto a mancare, via via, lo stimolo, l’alimentazione, il controllo da parte della cultura. C’è una certa differenza tra la gestione della Olivetti, tenuta da Adriano Olivetti, e le successive gestioni di Peccei e Visentini. L’ing. Adriano (lo chiamavamo così, quaranta anni fa) era un capo appassionato e vivamente partecipe, fino all’esaltazione; mentre gli altri, dal poco che ho potuto dedurre da alcuni stralci di dichiarazioni, sono distaccati, gelidi, tutto sommato indifferenti.

L’Olivetti si è andata normalizzando, appiattendo, ha perduto di anno in anno il lustro della sua immagine: “È diventata come la Fiat” mi confidavano i vecchi amici che incontravo di tanto in tanto. Mi dissero che a un certo momento si pensò perfino di affidare il budget pubblicitario a un’agenzia americana! Anche all’Alitalia, con cui ho avuto a che fare per qualche anno, si pensò di affidare la difesa dell’immagine a un’agenzia americana. Temo che abbia fatto lo stesso la Bassetti. E non so bene cosa è successo alla Pirelli dopo la morte di Arrigo Castellani, che, contro le tentazioni interne di molti filistei, riuscì a difendere la priorità dell’invenzione sull’amministrazione. La crescita a macchia d’olio delle agenzie pubblicitarie, preferite [...] agli uffici autonomi di una volta, la metto tra i motivi di decadenza di Milano. Alla città è venuto a mancare il sostegno dell’immaginazione. Del resto mi sono reso conto da tempo che la funzione dell’intellettuale, nell’industria non è più quella dei pionieri. L’intellettuale oggi considera come secondo mestiere il lavoro che fa nell’azienda: questa deve dargli gli alimenti non la gloria. La gloria è affidata ai quadernetti manoscritti che si porta in ufficio e che, quando si vede disturbato o si accorge di andare in trance posseduto dal demone, si trascina furtivo al cesso. [...] Gli intellettuali stipendiati dall’industria si incontrano meno al loro posto, ma più spesso nei comitati di redazione di giornali e riviste, nei corridoi delle case editrici, nei grandi alberghi, nelle librerie alla moda, ai vernissage, nei teatri, nelle giurie, nei convegni, nelle crociere politico-culturali»[21].

Industria e cultura italiana d’oggi

La pasta italiana è diventata nel mondo il piatto della crisi con le esportazioni che crescono del 27% in quantità e fanno registrare nel 2013 addirittura il record storico all’estero dove non sono mai stati consumati così tanti spaghetti, penne, tagliatelle, tortellini e rigatoni made in Italy. È quanto emerge da un’analisi della Coldiretti sui settori che resistono alla crisi e trainano la ripresa dell’economia nazionale, sulla base dei dati Istat relativi al mese di gennaio 2013. Il presidente della Coldiretti ha affermato che «l’Italia costruirà il proprio futuro tornando a fare l’Italia, ovvero valorizzando al meglio quello che ha già di unico e di esclusivo»[22].

Il nostro futuro produttivo è la pasta? Quello che sappiamo fare meglio è la pasta? Quello che abbiamo di unico e esclusivo è la pasta? A giudicare dai dati Istat diffusi nel febbraio 2013 sembra proprio così: «Crolla l’import di auto e computer ma l’export di vino e cibo made in Italy tocca il massimo storico di 31 miliardi di euro, circa il doppio delle vetture spedite sui mercati esteri. E anche il saldo commerciale complessivo non è niente male superando gli 11 miliardi di euro, il livello più alto dal 1999. In termini generali, secondo i dati Istat diffusi ieri, l’avanzo dei prodotti non energetici (alimentari, chimici e farmaceutici, petrolio raffinato) è stato di 74 miliardi rispetto a un disavanzo energetico di 63. A sorpresa, nonostante il rafforzamento dell’euro sullo yen e sul dollaro, i mercati esteri più dinamici sono stati gli Usa (+16,8%) e il Giappone (+19,1%). Male India e Cina con un ribasso medio del 10%. Non così però per i prodotti della dieta mediterranea che sulla piazza cinese hanno registrato un boom senza precedenti: 28% in più per l’olio, 84% per la pasta, 21% per il vino, 300% per il formaggio grana e il 500% per il prosciutto»[23].

La cultura si adegua all’andamento produttivo e delle esportazioni: «Con i propri studi e il proprio lavoro ha contribuito alla crescita morale, culturale e civile della nazione. Per questo Brunello Cucinelli, imprenditore italiano del cashmere, verrà premiato oggi a Roma, nella Biblioteca della Crociera del Collegio Romano, come “benemerito della Scuola della Cultura e dell’Arte”, riconoscimento conferito dal ministero per i Beni culturali. L’imprenditore filosofo — così definito per la sua passione per la filosofia, che non resta solo teorica, ma contagia anche il suo modo di fare impresa — nel 2010 aveva già ricevuto una laurea honoris causa in Filosofia ed Etica delle relazioni umane, oltre al Cavalierato del Lavoro. Ora il nuovo premio»[24].

Certo, il cashmere non è l’olio d’oliva o il parmigiano, però non è neppure quella “meccanica strumentale”, indicata in una recente intervista dal direttore del Dipartimento per l’integrazione, qualità e sviluppo delle reti di produzione e ricerca dell’Istat, Manuele Baldacci, come uno dei settori di punta su cui investire per una possibile crescita[25]. In ogni caso, è difficile immaginare l’Italia verso cui vogliamo andare come il paese in cui si produca cashmere. La cultura si adegua al cashmere: «Dal cashmere al Salone del Libro. Oggi in Sala Azzurra alle 12, l’imprenditore Brunello Cucinelli, cui è legato uno dei marchi più noti del made in Italy d’alta gamma, tiene una lectio magistralis sul tema dei Laboratori della creatività»[26]. Ecco un florilegio di citazioni dalla lectio magistralis di Cucinelli: «Dobbiamo imparare a coccolarci di più… Da noi si lavora come Benedettini, mente, anima e preghiera. Mente e anima si devono incontrare… Credo nella dignità dell’uomo. Si è creativi quando l’ambiente di lavoro è un po’ speciale… Potrei scommettere un milione di dollari: per la nostra Italia e la nostra Europa il meglio deve ancora venire… I libri mi hanno indicato la vita e la vita mi ha fatto capire i libri. Dei libri non potrei farne a meno»[27].

Se non è culturalizzazione pop dell’impresa, questa… 

Il «prodigio metrico» del lavoro precario

In un recente pamphlet, che è riassunto e messa a nudo della propria poetica, Walter Siti scrive: «Dal mio punto di vista, è necessario segnalare quanto ci sia di contrario al realismo nelle scritture che più sembrano rilanciarlo. Se il realismo significa sospendere e battere in breccia gli stereotipi, allora saranno nemiche del realismo tutte le cadute in una qualunque forma di stereotipia. Spesso da alcuni testi–capostipite, in cui l’esperienza della realtà è intensa e originale, nascono filiere e sottogeneri che tendono pian piano alla maniera; pensiamo per esempio ai “romanzi sul precariato”, che a partire da Pausa caffè di Giorgio Falco (o da Il mondo deve sapere di Michela Murgia) sono diventati un vero e proprio filone della recente editoria: pieno di cliché giovanilistici, sapido di un’ironia e autoironia che ammicca all’antico sottogenere del romanzo aziendale, tra Frassineti e Villaggio»[28].

L’Italia non è più un paese dove sia possibile dare ascolto al «prodigio metrico» delle macchine, di cui parlava Ungaretti scrivendo a Sinisgalli per la rivista di Finmeccanica. Non è per infierire, ma la miserabilità scandalistica che ha investito e travolto proprio la Finmeccanica è un’epitome del nostro “stadio industriale”. Forse, come abbiamo vissuto una modernizzazione selvatica, disordinata e arrembante — passando in un breve volger d’anni da paese agricolo a paese industriale, con la difficoltà e la resistenza di raccontare questo «nuovo livello dell’insieme della realtà umana», come scriveva Vittorini —, ci è toccato in sorte un post–industrialismo, un postfordismo selvatico, disordinato e arrembante.

Eppure, nella metrica del lavoro precario — che è la forma propria della “macchina linguistica” della forma del capitale d’oggi, «un mondo che non possediamo e ci possiede» — a me sembra possibile rintracciare quel linguaggio di parole e cose capace di spaccare la realtà, di leggerne e “tradurne” il conflitto.

Conclusioni

«Ogni momento di crisi economica porta con sé nuove opportunità a chi è in grado di coglierle, e sono i creativi culturali, in senso lato, ad essere i primi interpreti di un mondo che cambia. Le master class della scuola Holden vogliono mettervi a diretto contatto con le storie di successo di chi in questa fase di cambiamento ha saputo osare».

È il programma della Scuola Holden di Torino, quella fondata da Alessandro Baricco, per le Master Class 2012[29].

«Docenti di alto profilo — Abbiamo scelto come docenti, professionisti che ricoprono un ruolo di assoluto market leader nel loro settore. Il primo workshop sarà tenuto da Jeanne Bordeau, esperta di comunicazione aziendale e docente alla Sorbona a Parigi. Per riassumere: Branding e comunicazione d’impresa, quali frontiere? Contenuti didattici:

- Analisi della coerenza linguistica nelle imprese (dal management alla pubblicità).

- Analisi linguistica (come riconoscere le tipologie di parole).

- Creazione del linguaggio di un brand (come usare le parole giuste per un prodotto)».

Di Jeanne Bordeau, docente della Master Class, «assoluto market leader», si dice che «parlerà della creazione del linguaggio di un brand, ovvero di come usare le parole giuste per un prodotto e dell’importanza della coerenza linguistica nelle imprese».

L’importanza della coerenza linguistica nelle imprese. Non è proprio ciò che “inventò” Egidio Galbani col suo Formaggio del Bel Paese? C’era proprio bisogno di rispolverare gli «uso Francesi»?

Nicotera, 1 giugno 2013



[1] Dal sito ufficiale della Galbani: http://www.galbani.it/prodotti/bel_paese/storia/storia.html

[2] Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, 1976

[3] Mario Isnenghi, Storia d’Italia – I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Laterza, 2011

[4] Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII

[5] Petrarca, Canzoniere, Sonetto CXLVI

[6] Elio Grazioli, Arte e pubblicità, Bruno Mondadori, 2001

[7] Claudia Salaris, Il futurismo e la pubblicità, Lupetti & Co., 1986

[8] Qui: http://it.wikisource.org/wiki/Sulla_maniera_e_la_utilità_delle_Traduzioni

[9] A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, 1953

[10] Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, 2010

[11] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, 1963

[12] Workshop della prof.ssa Adele D’Arcangelo, docente di traduzione Inglese/Italiano presso l’Università di Bologna, si può vedere qui: http://www.vittorininet.it/supporto/elio/totale_approfondimenti.htm

[13] «La Lettura», inserto del «Corriere della Sera», domenica 26 maggio 2013

[14] Stefano Jossa, L’Italia letteraria, il Mulino, 2006

[15] Si può leggere qui: http://www.edscuola.it/archivio/norme/decreti/rd1592_33.pdf

[16] «Il Politecnico, Repertorio mensile di studj applicati alla prosperità e coltura sociale», Volume 1, Anno Primo = Semestre Primo, 1839. Si può leggere qui: http://it.wikisource.org/wiki/Il_Politecnico

[17] «Il Politecnico», ristampa anastatica, Einaudi, 1975

[18] Ho perduto il numero 4, ma mi è rimasto il numero 10, curato da Italo Calvino, che contiene un florilegio di citazioni da Vittorini — articoli, interviste — tra cui diverse relative al numero 4. «Il Menabò», 10, Einaudi, 1967

[19] V. Scheiwiller (a cura di), Civiltà delle macchine. Antologia di una rivista 1953-1957, Scheiwiller, 1989

[20] http://www.fondazionesinisgalli.eu/

[21] http://mpigreco.altervista.org/a/recensioni/civiltadellemacchine.html

[22] http://www.agi.it/economia/notizie/201305111018-eco-rt10024-crisi_boom_per_la_pasta_italiana_all_estero_27

[23] «Corriere della Sera», 16 febbraio 2013

[24] «Corriere della Sera», 19 aprile 2013

[25] «GliAltri» online: http://www.glialtrionline.it/2013/05/29/istat-nessun-allentamento-dellausterity-niente-crescita-per-i-prossimi-80-anni/

[26] «Corriere della Sera», 18 maggio 2013

[27] http://censurer16.tawaba.com/chan-9025639/all_p3.html

[28] Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013

[29] http://old.scuolaholden.it/Fondamenta/masterclass-fondamenta

Grandi scrittori immortalati da grandi fotografi

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Questo pezzo è uscito su Europa. (Immagine: Emmanuel Carrère, Parigi, 2004. ©Lise Sarfati/Magnum Photos/Contrasto)

Soprattutto, gli scrittori pensano e osservano. Riconoscerli è semplice perché di solito sono circondati da oggetti e ambienti che certificano il loro talento artistico. Gli scrittori sono i loro stessi gesti, i vezzi e i velluti che sigillano la loro diversità (penne, baffi, scrivanie, papillon, bretelle, scarpette e bicchieri di vino). È appena uscito Scrittori (libro edito da Contrasto) che presenta 250 fotografie di grandi scrittori immortalati da fotografi altrettanto celebri (Cartier-Bresson, Robert Capa, Elliott Erwitt, Ugo Mulas, Salgado, e altri). Ma questo splendido catalogo è anche involontariamente un manuale di retorica che illustra la mitologia che avvolge intellettuali, romanzieri e poeti. Per prima cosa, lo scrittore autentico è circondato da libri. Libri sfogliati, libri che caricano chi li sfiora del loro potere evocativo. Molti volumi infatti tra le mani di Adonis e Yeats, di Apollinaire e Cabrera Infante, mentre Márquez ha una copia di Cent’anni di solitudine aperta sulla testa, e spessissimo i libri rifulgono dallo sfondo: dagli scaffali di Margaret Atwood, George Bataille, Malaparte e Gadda. Pile torreggiano da terra e circondano Peter Handke, Musil è sommerso da quelli impilati sulla scrivania; abbondano le librerie ordinate di Vargas Llosa, di Vila Matas, della Némirovsky, e quelle disordinate à la Mishima.

Ma prima di dare vita ai capolavori, gli scrittori sono punti interrogativi e i fotografi non hanno desiderato altro se non cogliere sguardi che raccontassero tutto di loro, i tormenti, la vita e l’opera stessa. È infinita la galleria di occhiate inimitabili: “lo sguardo torvo” di Martin Amis, quello impenetrabile di Paul Auster, gli occhi inquieti di Ingebor Bachmann, quelli nostalgici di Bolaño, lo “sguardo assorto” di Henry James, quello perso nel nulla del nichilista Houellebecq, lo sguardo pazzo di Bret Easton Ellis, quello fulminato di James Ellroy e quello ipnotico di Zadie Smith.

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Talmente celebri, alcune foto sono diventate icone. È il caso dello scatto a Beckett (di Cartier-Bresson), a Kafka, a Bruce Chatwin con gli scarponi al collo e lo zaino, immagine immortale del viaggio avventuroso. Spesso gli scrittori sono rappresentati da ammennicoli che diventano i loro correlativi oggettivi: le infradito del brasiliano Jorge Amado, gli occhialetti di Brecht, la lente d’ingrandimento di Joyce, la penna di Savinio, il cappello della Nothomb e i ricci della Oates (per non dire dei fucili di Burroughs, Jack London ed Hemingway). Altre volte gli scrittori sono i luoghi che hanno narrato: non c’è Neruda senza mare alle spalle, non c’è poesia di Walcott senza piante sullo sfondo. Non si danno Marguerite Duras, Simone De Beauvoir né Sartre senza dietro i tavolinetti e i lampioni parigini. Impensabili Ben Jelloun o Amos Oz o Yehoshua seduti alle scrivanie e infatti alle loro spalle sempre dolci deserti di sabbia sacra. Chi è Sebald se non i rami secchi delle sue passeggiate letterarie?

Dal libro Scrittori, curato da Goffredo Fofi, risalta un elemento decisivo: le mani tengono teste pensierose. Il volto di Heinrich Böll e la fronte di Gide sono sorrette da una mano. Ne servono due per tenere il viso di Yasunsari Kawabata e una è appoggiata alla tempia di Thomas Mann. Per Moravia serve un pugno che rinforzi il mento, Philip Roth tiene un indice contro la tempia. Di certo, più lo scrittore è impegnato più urge un sostegno per la testa: la mano di Tabucchi ne cancella quasi il volto, Saviano ha bisogno di un pugno sotto il mento e del gomito sul ginocchio che puntelli il braccio, e tutte e due le mani sono sulle tempie di Alice Walker (dovute forse alla “passione per l’impegno e la vita sociale”). D’altra parte già la Malinconia incisa da Dürer si teneva il viso con la mano.

Che osservino, scrivano o riflettano, tutti emanano una vaga dannazione e quindi un po’ di fumo che li avvolge: sigarette tra le dita o tra le labbra di Bulgakov, Camus e Cocteau, Fuentes e Cortázar, Hammet e Cummings, Maugham e Mayakovsky, Prévert e Joseph Roth, Steinbeck, Karen Blixen e Salinger. Sigarette con bocchino per Paul Éluard, Ferenc Molnár e Virginia Woolf. Tanti i sigari: Houellebecq e Burgess, Dos Passos e José Lezama Lima perché più del sigaro poté solo la pipa: Dürrenmatt e Arthur Miller, Neruda e Sartre, Simenon e Amis, Hermann Broch e Apollinaire (qui fotografato da Pablo Picasso).

Si potrebbe analizzare il significato di scrivanie, barbe, occhiali, corpi spogliati, rossetti e cappelli, ma in questa carrellata di pose, miti e cliché, in cui gli scrittori sono speciali anche quando fanno cose comuni (Pasolini gioca sì a calcetto in borgata, ma in giacca e cravatta), spiccano le immagini semplici e quelle inattese, Emmanuel Carrère con mani in tasca, Stephen King in moto, Carlo Levi che dipinge, Henry Miller seduto su un gabinetto chiuso, Montale che fissa l’upupa impagliata (regalo di Parise), Nabokov a caccia di farfalle, Singer che dà da mangiare ai piccioni e Proust sul letto di morte. Con buona pace dei fotografi, è perfetta anche la foto di Thomas Pynchon che ne ritrae con fedeltà assoluta il suo carattere schivo: un’anonima fototessera di gioventù.


Figurine mondiali, seconda parte

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Di recente Luca Ricci ha curato per Radio 3 un ciclo di puntate intitolato Figurine mondiali, affidando a dieci scrittori italiani il compito di ridefinire alcune parole basilari del calcio. Pubblichiamo la seconda parte di questo Sillabario e, come contenuto extra, un racconto di Antonella Lattanziqui la prima parte. 

Gaia Manzini
Tifo

Nella mia vita, la parola tifo ha sempre avuto un significato ambiguo.

La prima persona a cui ho sentito parlare di tifo è stata mia nonna Valdina.

Camminavamo per il Parco Sempione un pomeriggio d’estate; io avevo cinque anni. Non appena vidi una fontanella, mi ci avventai liberando la mia mano dalla sua.

“E non bere che se no ti viene il tifo!” Esclamò nonna Valdina.

Alle elementari ci si chiedeva sempre: “Ma tu a che squadra tieni?”.

Io allora tenevo alle Juventus perché bianco-nero mi sembrava una bella accoppiata di colori. E poi anche perché INTERISTI CACCONI era la scritta che campeggiava sul muro del mio condominio in via Correggio. Così, per un cortocircuito tra la scatologia della scritta e una certa assonanza, schifosi e tifosi per un po’ ebbero lo steso significato. Fare tifo era fare schifo. Quindi io tenevo alla Juve. La Juve era la mia squadra del cuore. Non mi sarei mai azzardata a dire che ero una tifosa, cosa che tra l’altro avrebbe pure spaventato a morte nonna Valdina.

Il tifo l’ho rincontrato in terza media.

Raffaella Lombardini raccontava sempre di un libro che le aveva dato la sorella più grande. Parlava di una città presa dal torpore, una città intera che aveva la febbre. A noi compagne sembrava un’immagine potentissima.

“Ma che libro è?” Chiese la più spavalda. Raffaella Lombardini rispose altezzosa: “Il tifo di Camus”.

Dal liceo in poi, tutto invece sembra prendere contorni più netti.

Mi do più seriamente alla lettura. La lettura è generosa di rivelazioni che non riguardano solo Camus. Per esempio, mi accorgo che il dottor Faust sarebbe il primo da invitare a una festa e se Emma Bovary diventasse un’assennata casalinga dedita al tiramisù, per me sarebbe una catastrofe.

Insomma, nonostante tutto, faccio il tifo per loro con esultanza da ultrà.

È un tipo di tifo che mi fa sentire più libera, buttata in una vita più complessa e ampia della mia.

All’università, tre amici mi accompagnano all’esame di latino. “Signorina, si è portata dietro il tifo?” Chiede il professore. Io rispondo di sì, orgogliosa, vibrante d’energia. Il tifo non ha più solo a che fare con lettura e libertà, ma pure con l’amicizia.

E così l’ambiguità della parola sembra essere risolta.

Poi, invece, il giorno del mio matrimonio, prima di entrare in comune, mia zia mi prende da parte e come se dovessi scendere in campo, mi fa: “Mi raccomando, io faccio il tifo per te.”

Antonio Pascale
Cross

Tecnicamente parlando, il cross è un passaggio eseguito da un giocatore che occupa le fasce esterne o la trequarti del campo (quindi un terzino o un’ ala). L’obiettivo di chi crossa è a) sollevare la palla da terra b) indirizzarla o verso i pali o verso il centro della porta- nel tentativo di incrociare una punta, da qui cross: incrocio.

Affinché la palla attraversi il campo disegnando un arco e, appunto, incroci una punta sono indispensabili visione di gioco e precisione, e naturalmente fortuna.  Il cross è comunque spesso causa di repentini e velocissimi, inaspettati, dal punto di vista narrativo, affascinanti, imprevedibili mutamenti di fronte.

Basta ricordare, per esempio, la partita della lega pro Inglese (la nostra seria b) Watford vs Leicester city. Domenica, 12 maggio, 2013. Spareggio per i play off . Se il Watford vince passa il turno, se pareggia passa il Leicester. Il Watford sta vincendo 2 a 1 ma al 96 minuto viene assegnato un rigore al Leicester.  Se il giocatore Anthony Knockaert dovesse segnare passerebbe il Leicester.

Pausa: Knockaert (che è mancino) tira ma il portiere Almunia respinge. Confusione in aria, Knockaert ci riprova, ma niente da fare. Il Watford avvia il contropiede e in pochi secondi concitatissimi, velocissimi, la squadra supera la trequarti. A questo punto Fernando Forestieri dalla fascia destra, dal limite dell’aria fa partire un cross. Il pallone disegna un arco e termina sul lato sinistro della porta. Qui c’è Hoog, che mette il pallone in mezzo e Denney che sopraggiunge segna al volo: 3 a 1.

Il cross quindi è un modo per unire velocemente due punti del campo distanti. La palla, cioè, l’informazione, sollevandosi da terra, supera gli ostacoli fisici e mette in comunicazione soggetti differenti. Il cross può ricombinare gli elementi in campo.

Naturalmente esistono varie derivazioni da questa parola, moto cross, ciclo cross, ma io preferisco crossing over.

Il crossing over indica un affascinante fenomeno che avviene durate la profase 1 della meiosi. I cromosomi omologhi, poco prima di separarsi in cellule figlie, si appaiono, ecco in questo momento i bracci dei cromosomi omologhi si incrociano, cioè si scambiano materiale genetico L’informazione genetica viene quindi ricombinata e tutto ciò è fonte di nuova e necessaria variabilità.

Se non ci fossero scambi genetici, se le informazioni non si combinassero in nuove forme, molto probabilmente avremmo meno possibilità di superare le sfide ambientali.

Per superare le sfide in campo e nella vita è necessario contaminarsi, incrociare, linguaggi diversi, strumenti diversi, integrare le soluzioni, insomma gettare ponti culturali tra singole isole, che altrimenti sarebbero troppo distanti, sole, autistiche,incapaci di comunicare.

Rossella Milone
Calcio d’angolo

Appena chiuse lo sportello dell’auto, la donna sentì un fischio alle sue spalle: “Shsh. Stai zitta, per favore.”

Era la ragazzina del suo pianerottolo, la figlia dell’infermiera che ogni tanto andava a fare le siringhe agli inquilini del palazzo. Quando qualcuno la chiamava, la ragazzina seguiva la madre con il broncio e la borsa di cuoio con le siringhe, il laccio, l’ovatta. Quando l’infermiera s’infilava nelle case degli altri, la ragazzina restava ogni volta in disparte, taciturna, come incurvata da un peso. Una sera l’infermiera finì pure in casa della donna per via di certe contrazioni all’addome. Le aveva appoggiato una mano sulla fronte mentre la figlia aveva afferrato la siringa dalla borsa. Sempre nell’angolo, infilata come uno scarafaggio tra il balcone e l’armadio – immobilizzata. La donna si mise a fissare la ragazzina senza darle scampo, mentre l’infermiera le bucava la pelle. Le cercò gli occhi tra i capelli che le coprivano il viso; fissò quelle cavità violette già piene di ombre, già turbolente, affaticate da un gioco che la impegnava molto. La vita. Le siringhe. La pelle dei malati. Quel gesto che ogni volta faceva sua madre – di spingere un ago nel corpo degli sconosciuti – le dava il senso di una violazione che la tormentava. Era questo a metterla ogni volta nell’angolo. A tenerla ferma come un insetto sulla schiena.

Allora quando la ragazzina le disse: “Stai zitta, per favore”, la donna decise di non prendere le buste della spesa dal cofano, per non fare altro rumore. La ragazzina era appollaiata tra il muro del garage e i bidoni dell’immondizia, nell’angolo che dava sui giardinetti. In quel momento stava passando un tipo con un cane al guinzaglio, e la donna vide la coda scivolare sul viso della ragazzina per un attimo. Lei non si scompose. Concentrata, guardava la piazza del parcheggio inclinandosi di tanto in tanto, con lo sguardo lungo rivolto al ragazzino che spaziava tra le macchine, in cerca di altri ragazzini. Un mucchietto era già stato scovato, e restava in attesa di una possibile salvezza, appoggiato ai cofani delle auto. A un tratto il ragazzino si accovacciò a fianco a un camper, saltellò sui due piedi, corse al muro per gridare il nome di un altro stanato.

La donna sentì la ragazzina mormorare: “Sono l’ultima”… Allora si allontanò facendole ciao con le dita. La ragazzina si limitò ad appiattire il corpo contro il muro, per prendere la forma dell’aria. Quando fu in casa, la donna lasciò cadere la borsa sul divano, e subito si recò fuori al balcone che raccoglieva le ultime luci del cielo, le prime della città, delle cucine, dei portoni, dei lampioni sopra al parcheggio. La ragazzina era ancora lì. La donna riusciva a vedere la schiena di lei arcuata,  le mani per terra. Pronta. Il ragazzino la cercava dal lato opposto, con un passo nervosissimo, procedendo verso l’edificio dell’asilo circondato dai portici. Lui lentamente si appoggia a una colonna. Sbircia, tentenna. La rotondità della colonna non lo aiuta. Procede così per tutto il portico girando a vuoto. La ragazzina, invece, è protetta dalle linee rette, dall’angolo che la salva – una tana geometrica che già le ha insegnato a nascondersi dalle persone . Si mette dritta, con le spalle al sicuro aspetta. La donna, a un tratto, da lassù la vede sbucare con i capelli al vento. Correre senza ansia, calciando l’aria, le gambe la testa le braccia che schizzano in avanti. Il ragazzino si volta di soprassalto, arranca con troppa goffaggine. La ragazzina è già lì, la donna la vede; al muro della conta, con gli altri ragazzini che saltellano, e applaudono, e urlano. E se la immagina la voce di lei, gridare sollevata: “Salvi tutti!”

Giordano Meacci
FuoriGioco

Per chiunque sia ossessionato dal calcio, lo viva da atleta o anche, semplicemente, sia pervaso dallo «Spirito di Eupalla» nelle sue frequenti o saltuarie occasioni di “allenatore da divano” (che è poi la pratica sportiva più diffusa), la regola del fuorigioco è una specie di chiave esoterica per stabilire “chi nel calcio c’è e chi non c’è”: come diceva un esaltato Don Camillo al Crocifisso dell’AltarMaggiore. In questo trasformando la regola stessa in una sorta di correlativo oggettivo della cosa regolata.

Essere ‘fuorigioco’ significa in sostanza trovarsi in una porzione di spazio irreale, nel luogo giusto al momento però-sbagliato; dove l’attaccante, di fatto, non può essere attivo e partecipe: significa – da parte del guardalinee – identificare la “Zona” che non esiste ancora, i “Territori” di Stephen King, l’Universo Segreto dentro l’armadio di C. S. Lewis; il Gatto di Schrödingerdel sì e del no in una richiesta di appuntamento a Scarlett Johansson.

La parte esatta di campo in cui un calciatore è prima immediatamente di qua dalla linea dei difensori e poi – in un frammento di tempo, in un secondo fiabesco, nel punto preciso che va da zero a uno in quel passaggio netto che è poi il barlume in cui il girino diventa rana (ed è imprendibile da una ripresa quanto il gol della Mano de Diós) – si trova di là dall’ultimo avversario.

Il tempo che diventa spazio nella fisica dissociata di Star Trek: il fruscìo del teletrasporto che confida nelle diottrie dell’assistente dell’arbitro prima ancora che nello scotch del Signor Scott. Ed ecco che – un passo di danza, un gesto da prestigiatore tanghéro– lo spazio diventa corsa sfrenata o fischio azzerante, gol indimenticabile o beffa eterna del mondo condizionale.

Il fuorigioco è la terra di frontiera incerta e guizzante di quel che può essere: dove le linee del calcio s’incrociano e alle volte lasciano sfilare via l’ombra segaligna e apparentemente innocua di un Paolo Rossi. O di un Inzaghi. I prìncipi del filo del fuorigioco: gli zombi eleganti dell’ombra tra due mondi – il di qua e il di là dalla linea. D’altronde, preso alla lettera, fuori-gioco è anche una negazione del mondo interiore – ch’è poi l’universo che crea-sé stesso-allargandosi dei Maradona, dei Del Piero e dei Totti in reazione.

«Fuori, gioco» presuppone un’interiorità negata; un Sole eterno appeso al filo dei panni delle estati di bambino. Quando il fuorigioco, nei campetti, semplicemente non c’era. Non c’è. E la regola e l’azione coincidono, la sabbia si smuove sporcando le magliette sudate. … … E lì― dopotutto― fuori dal gioco; che altro c’è?

Elena Stancanelli
Rigore 

Rigore è soprattutto rigida e stretta coerenza con le premesse, col metodo stabilito. A rigor di logica, indagine condotta con rigore scientifico, un ragionamento rigoroso, sono tutte espressioni che intendono la nettezza con la quale si arriva esattamente dove si era progettato di arrivare. Dove gli sforzi che abbiamo fatto sapevamo ci avrebbero condotto, se niente fosse andato storto. Il rigore non prevede distrazioni, ripensamenti, cambi di direzione. È rigidità, persino delle membra, fino all’ultima, finale, fissità, il rigormortis. Quando si chiede, si impone, di usare rigore si vuol dire di essere inflessibili, non accettare per nessuna ragione, in cambio di niente, la richiesta di una deviazione. Al contrario, per chiedere clemenza si supplica di attenuare il rigore, di mitigarlo. “Eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo ma per il rigore delle pene che io provo”, scrive Leopardi. Persino l’abito, se è di rigore, non può essere evitato. Ineludibile il rigore, perché sta lì davanti nella sua perfetta solidità, senza flessioni, sempre uguale.

Nel calcio, Lo sappiamo, il rigore è la punizione somma, concessa dall’arbitro alla squadra che abbia subito un grave fallo nella propria area. Lo si tira da un punto fisso, il dischetto, che dista 11 metri dalla linea di porta, con l’area completamente sgombra.

Eppure quel rigore, il rigore per antonomasia, è quasi un ossimoro di quanto si è detto. È un tiro, affidato al più affidabile dei calciatori in campo, una sfida tra due uomini, quello che calcia e quello che para. Ma è un tiro, appunto. E senza star qui a dilungarci sul significato della parola tiro, è evidente che un tiro non contiene in sé niente dell’affidabilità di cui abbiamo detto. Nessuna ineluttabilità, nessuna certezza. È piuttosto il contrario: un azzardo, persino uno scherzo. Magari calciando un rigore non si potesse che incorrere in quella immodificabile fissità! Sempre dentro, rigorosamente. Invece il rigore comincia proprio dove tutto il rigore è già compiuto, quando, commesso il fallo, la punizione sia stata assegnata. Sono pochissimi, imprevedibili, istanti. Io, di rigore, chiudo gli occhi.

 

Antonella Lattanzi
Tiro secondo

- Tu lo sai lo spagnolo, no?

- E me lo chiedi.

- Allora me lo traduci?

Stanno stese sull’erba calda, il sole è un piatto di ferro battuto a fuoco, colpo dopo colpo, proprio adesso nel cielo, e loro due sono così giovani.

Paola le passa un foglio.

- Ma è lungo.

- Due righe. Dài, per favore.

Alba sbuffa, stende il foglio sul prato.

- Allora. “Da quale pianeta se…”

- Aspetta, aspetta: la penna.

- Fai presto.

Paola si alza di scatto, corre via sollevando troppo i talloni, inciampa, riprende la corsa. Alba guarda gli altri che giocano a calcio, guarda Valerio più di tutti, ha 16 anni, i capelli lunghi sulla nuca, ha ucciso un uomo.

- Ecco, – Paola si risiede con una scivolata sull’erba, il fiatone.

- Però, scusa… Come fa a piacerti uno così? Proprio tu. Quando lo sa tua madre…

- Quando lo sa mia madre le dico: ormai ho 14 anni e prendo tutti 9. Lui si chiama Valerio e farà il calciatore.

- Sì.

- E lei mi dice: hai ragione, te lo sei meritato l’amore, l’amore non ha pregiudizi e confini, brava. Va’ con lui e sii felice.

- Seee.

Alba ride. Ride anche Paola. Guardano Valerio che corre, le ragazze del liceo in visita ai giovani detenuti tentano di star dietro al pallone anche loro, educatori e guardie tutto intorno al campo stanno dritti come soldatini di piombo. Valerio si gira. Paola e Alba alzano la mano all’unisono, rosse in viso salutano.

- Vai, traduci.

- Ma quindi ’sta cosa è un regalo per lui, no?

- Sei furba tu.

Paola le fa saltare il foglio, Alba lo riprende al volo annaspando con le mani nell’aria, ridono ancora.

- Stupida. Allora. “Da quale pianeta sei venu…”

- Oh! Oh! Più piano.

- E va bene, più piano… “Da quale pianeta sei venuto per lasciare sulla strada tanti inglesi, perché il Paese sia un pugno chiuso che grida per l’Argentina? Argentina 2 – Inghilterra 0. Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona… Grazie Dio, per il calcio, per Maradona, per queste lacrime, per questo Argentina 2 – Inghilterra 0”.

Intervista a David Cronenberg.

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david_cronenbergPubblichiamo l’intervista di Paola Zanuttini a David Cronenberg uscita su il Venerdì di Repubblica, ringraziando l’autrice e la testata. (Fonte immagine)

Toronto. Aristide e Célestine Arosteguy sono la coppia Sarte-De Beauvoir del XXI secolo. Anticonformisti e libertini. Marxisti irriducibili. Massimi teorici della filosofia del consumismo. Ultrasessantenni e seducenti. Idolatrati dagli studenti della Sorbona, assidui dei loro corsi e del loro letto. Succede che Célestine scompaia: immagini diffuse in rete mostrano il suo cadavere cannibalizzato. Sparisce anche Aristide, che in seguito rispunta a Tokyo. Poi c’è un chirurgo di Budapest trapiantatore illegale di organi. Una malata terminale in fissa con l’eros preagonico.Un neurologo di Toronto che ha avuto il discutibile onore di dare il suo nome a una malattia venerea. E un regime comunista, la Corea del Nord, che calamita defezioni dall’Occidente capitalista. Due giovani reporter – americano lui, canadese lei – supertecnologici, morbosetti e un po’ cialtroni, indagano come si indaga al tempo del giornalismo digitale. Ah, poi ci sono un bel po’ di sindromi inquietanti e bislacche. È il primo romanzo di David Cronenberg: Divorati. Ci ha messo otto anni a scriverlo, ma nel frattempo ha girato cinque film. Questo, però, non diventerà il suo ventiduesimo lungometraggio: «Prima ci pensavo, cinque produttori mi hanno fatto delle offerte, ma mi annoierei, la storia la conosco. Meglio che ci pensi un altro».

Come avviene nel suo cinema, anche nel romanzo le deformazioni del corpo e della mente, il sesso bizzarro, l’invadenza della tecnologia e le cospirazioni non sono espedienti da Grand Guignol, ma strumenti di un’investigazione filosofica (filone esistenzialista) sulla condizione umana. Definita, in questo caso, da Stephen King «una luce abbagliante che spalanca gli occhi». Gli occhi di Cronenberg sono di un blu artico: l’elemento perturbatore, insieme al sorriso – tendenza Joker – nella sua faccia da canadese tranquillo e felicissimo di essere da questa parte del confine con gli Stati Uniti: molto più quieta e democratica, ma non necessariamente noiosa. Un lampo di ironia o di provocazione e poi l’espressione torna serafica. Si deve divertire molto a confezionare le sue dissezioni della specie ostentando l’aplomb di un professore bonario e canuto che dedica a Carolyn, la moglie, il suo debutto letterario.

Se un lettore organizza la libreria per generi, avrà qualche incertezza sullo scaffale in cui infilare Divorati. Ce l’ha anche l’autore: «Un amico che dirige una rivista di cinema horror voleva organizzarmi un incontro pubblico, gli ho risposto che questo non è un romanzo di genere e non so se i fan dei miei primi film lo apprezzeranno. Direi che ha alcuni elementi del thriller moderno e altri del postmodernismo». Di sicuro è postmodern la presenza di gadget elettronici disseminati nelle 348 pagine, inesorabilmente citati con marche e sigle ogni volta che un personaggio ne fa uso. Cronenberg non si è rivolto a un consulente per la documentazione, non ce n’era bisogno: «Ne so abbastanza, la tecnologia è la prima cosa che mi ha attirato del cinema: ero incuriosito dalla sincronizzazione suono immagine, dalla pellicola senza audio che, dopo il montaggio, scorreva insieme alle parole, i rumori e la musica. Quando andavo ad affittare una cinepresa stavo ore con l’operatore a farmi spiegare come funzionava. La mia prima sceneggiatura battuta al computer risale 1985: non potevo aspettare. Ero affezionato alla mia macchina da scrivere, una specie di trattore vittoriano, ma era troppo lenta rispetto ai pensieri. Invece, il primo film girato in digitale è solo del 2012 perché fino ad allora il mio direttore della fotografia non era convinto della qualità».

Irrequietezza e prudenza, quindi. Anche Divorati segue queste linee guida. Perché la trama è indiavolata, il sottotesto filosofico, ma lo stile molto semplice, quasi popolare. «Ho sempre pensato che le più difficili questioni filosofiche non dovrebbero essere oscure. Se ti avvicini a Heidegger o a Sartre devi imparare tutto un nuovo vocabolario solo per leggerli. Questo ti tiene fuori e, se ci entri, ti infili in una gabbia che ti separa dalla vita. Se la filosofia serve a vivere meglio dev’essere accessibile, per questo trovo che la narrativa sia un splendido modo per esprimerla».

La professione di scrittore gli piace molto, pensa già a un altro romanzo e minaccia vagamente di lasciar perdere il cinema. «Quando lavori a un libro c’è maggiore intensità, monologo interno, complessità. E libertà. Il problema con i film sono sempre i soldi: devi andare incontro al pubblico, essere semplice, comprensibile, ma alcuni miei film, come Inseparabili o Crash, non lo sono affatto». Dice che l’editing è stato una passeggiata. Ha avuto quattro editor per ognuna delle tre case editrici in lingua inglese che pubblicano il romanzo: «Tutti gentili, collaborativi, rispettosi, mica come nel cinema, dove ognuno dice la sua e il produttore sbraita Odio quella scena, tagliala».

Nel cinema, Cronenberg ha avuto i suoi problemi. Quando nel 1975 uscì Il demone sotto la pelle (un parassita risveglia nella popolazione gli istinti sessuali repressi…), un giornalista indignato scrisse: «Dovreste proprio sapere quanto è brutto questo film, l’avete pagato voi!» alludendo al fatto che aveva ottenuto il contributo dello Stato. A seguire, polemiche in Parlamento, difficoltà nell’ottenere finanziamenti per i film successivi e, secondo la vulgata, anche lo sfratto dal padrone di casa benpensante.

Anche con la vulgata D.C. ha le sue noie. Perché dev’essere tedioso sentirsi definire ancora il barone del sangue, il signore del body horror o il regista che negli anni Settanta-Ottanta dissecava il corpo e dai Novanta in poi il cervello. «È un organo che ha sempre avuto un suo ruolo in ogni film che ho girato. Mi sembra una definizione un po’ sbrigativa del mio lavoro». Che allora lo definisca lui, il suo lavoro: «Fin dall’inizio dico che è un’avventura filosofica, un viaggio per capire in cosa consistono l’essere umano e la condizione umana. Sono sempre stato convinto che il corpo è la prima ed essenziale dimostrazione della nostra esistenza. Molto di quello in cui crediamo o che inventiamo è un tentativo di evasione da questa consapevolezza. Quasi tutte le religioni sminuiscono il corpo e spingono a trascenderlo per indurci a sperare che possiamo sfuggirgli e che la morte non è la morte. Questo succede anche nell’arte e nella politica: cos’è che dà coraggio a un kamikaze imbottito di esplosivo?».

Inevitabilmente, Nath e Naomi, i giornalisti di Divorati , utilizzerebbero per Cronenberg le formule stantie di cui sopra. Perché sono conformisti come le riviste sensazionalistiche per cui lavorano. Naomi, poi, è praticamente disabilitata se sconnessa da Google, protesi culturale della sua abissale ignoranza. L’autore è indulgente con loro: «Sono ingenui e un po’ rozzi, come gli americani in Europa di Henry James», ma è più severo sulla deriva del giornalismo. «C’è un vero declino della professione perché non c’è più la struttura che ti obbligava a imparare, cominciando dalle piccole notizie di cronaca o sport che un caporedattore esigente ti faceva riscrivere senza pietà. Ora impari tutto nelle scuole di giornalismo, sulle quali non mi pronuncio perché non le ho mai viste, ma so che su internet ci sono critici che si definiscono tali perché hanno un sito o un blog, e se vai su Rotten Tomatoes vedi che non sanno parlare, non conoscono la grammatica e sono proprio stupidi, ma vengono presi in considerazione come tutti gli altri critici e giornalisti. Ognuno ha accesso al suo posto in rete e si può ricreare come un avatar».

C’è una frase rivelatrice nel romanzo: «Ormai siamo tutti fotogiornalisti. Scrivere e basta non è più sufficiente. Dobbiamo recuperare immagini, audio, video». Cronenberg ha fatto i conti, suo malgrado, con questa mutazione «Ci sono giornalisti, li conosco da anni, che un giorno hanno cominciato a presentarsi con l’iPhone in mano per riprendermi. Ma la mano trema e quindi anche l’immagine, il suono è terribile perché stanno lontani e non usano il microfono, la luce agghiacciante. Io provo a obiettare che verrà una schifezza, che la ripresa è un lavoro complesso, richiede concentrazione e non si può intervistare e filmare nello stesso tempo, ma loro ribattono che devono farlo perché altrimenti c’è qualcun altro pronto al posto loro. Molto imbarazzante». Naturalmente D.C. non è un nemico della rete, tutt’altro: «È un ottimo strumento se hai la capacità di scegliere e controllare, ma è evidente anche l’aspetto distruttivo. La tecnologia che creiamo è il riflesso di quello che siamo, esattamente come politica».

Nel romanzo, come in tutta la produzione di D.C., il corpo si ribella. Qui, con risvolti narrativamente strategici, lo fa attraverso l’Apotemnofilia, ovvero la smania di amputarsi parti del corpo sentite come superflue o disarmoniche. O con la malattia di Peyronie, che incurva orrendamente il pene, e con altre aberrazioni che non stiamo qui a elencare. Ma come reagisce questo esploratore della corporeità quando gli spunta un brufolo strano o un acciacco inedito? «Come tutti, credo. Forse con più curiosità. Per questo la definizione the body horror non viene da me, perché non penso che quel che faccio sia orrore del corpo, ma piuttosto interesse e fascinazione. È la nostra essenza, come potrebbe non interessarci?». Visto che nella trama ha un certo ruolo anche un apparecchio acustico, mentre ne parla D.C. si sfila improvvisamente il suo, praticamente invisibile: «È identico a quello del romanzo, ha cinque livelli». Può entrare in contatto con le stelle? «No, questo non credo».

Già, ma come gli è venuta in mente l’Apotemnofilia? Indossa il sorriso da Joker e risponde che, quando si scrive, si cannibalizza la vita, gli eventi accaduti in famiglia o agli amici. Poi, forse per evitare spiacevoli fraintendimenti (Cronenberg prossimo a mutilarsi un orecchio!), spiega che la patologia in questione è un dono di Bruce Wagner, lo sceneggiatore di Maps to the Stars: «Mi ha mandato un articolo dell’Atlantic Monthly, molto bello, intitolato Un nuovo modo di essere matti, che la descriveva. Ho cominciato a farmi delle domande: è un disordine dismorfico? È sempre esistito o è emerso solo adesso con la sovraesposizione mediatica del corpo? Prima di girare A Dangerous Method ho studiato a fondo l’isteria, che non esiste più per com’era considerata una volta – femminile, legata all’utero, eccetera eccetera – perché è cambiata la cultura. Quindi significa che le malattie le creiamo anche noi. Un’idea affascinante da piazzare in un film o in un libro».

Cannibalizzando la sua vita privata e pubblica, Cronenberg ha infilato in Divorati anche qualche aneddoto della sua carriera. Per esempio, i passaggi al Festival di Cannes in veste di presidente della giuria o di concorrente: «In fin dei conti, non c’è mai stato uno scrittore presidente di giuria, quindi valeva la pena di raccontare qualcosa. Soprattutto le beghe di politica estera…». C’è una sanguinosa rissa fra giurati che riecheggia le polemiche sollevate dai suoi film o dalle sue scelte come presidente: nel 1999 caldeggiò la dibattuta vittoria di Rosetta dei fratelli Dardenne e, tre anni prima, il premio della giuria al suo Crash scatenò un finimondo. «Gilles Jacob mi aveva detto che voleva piazzarlo a metà rassegna per farlo esplodere come bomba. A me pareva un’esagerazione: il film era basato su un romanzo di Ballard uscito 23 anni prima che conoscevano tutti. Invece aveva ragione. Io non vedevo quanto era disturbante, ma Ted Turner lo voleva bandire, i politici dicevano che avrebbe corrotto gli adolescenti e qualcuno si scandalizzò perché c’era una mutilata che faceva sesso. I disabili invece amarono quel film, hanno detto che gli piaceva perché mostrava la realtà che vivono loro, dove un po’ di creatività e umorismo sono necessari, per fare sesso».

Nel suo primo romanzo. D.C. infrange l’ultimo tabù, il sesso anziano, con ricorso al provvidenziale Crisco, grasso vegetale da cucina molto usato anche come lubrificante sessuale. «Be’, ormai sui giornali se ne parla, ma se avessi scritto questo libro a trent’anni non ci avrei messo l’esperienza di oggi. Ho 71 anni, il sesso mi piace, ma ho anche la consapevolezza di invecchiare e mi domando come sarà tra dieci o vent’anni, sempre che ci arrivi, e che la mia partner ne abbia voglia, perché quel che succede agli ormoni degli uomini e delle donne è diverso. Certo, per girare una scena del genere al cinema ci vorrebbero luci molto morbide».

Uomini e cinghiali: una conversazione tra Goffredo Fofi e Giordano Meacci

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Pubblichiamo una conversazione tra Goffredo Fofi e Giordano Meacci apparsa sul numero di maggio della rivista Lo Straniero. Oggi, venerdì 3 giugno, Giordano Meacci, candidato al Premio Strega con Il Cinghiale che uccise Liberty Valance, è ospite della Repubblica delle Idee in una conversazione con Nicola Lagioia sul tema L’amore in cinghialese. L’incontro è alle 23 allo Spazio D del museo Maxxi di Roma: ingresso libero fino a esaurimento posti. Si può prenotare un posto online qui. (Fonte immagine)

di Goffredo Fofi

Il romanzo di Giordano Meacci Il Cinghiale che uccise Liberty Valance (minimum fax) è, insieme a quello di Simona Vinci di cui si dice in altra parte della rivista, uno dei rari italiani belli e profondi di questa stagione. Sempre per minimum Meacci ha pubblicato da poco una raccolta di scritti “pedagogici” che parte da Pasolini professore, mentre uno dei bei film recenti, Non essere cattivo, porta il suo nome tra i principali collaboratori del compianto Claudio Caligari. Ma è il romanzo, credo, la sua opera più personale e più pensata, più ambiziosa. Un romanzo strano, che racconta un piccolo paese, Corsignano, a cavallo tra Umbria e Toscana, dalle parti del Trasimeno, uno “strapaese” di cui racconta gli abitanti e le loro personali follie, l’incontro e scontro tra i loro caratteri e i loro desideri, in questi anni, alcuni più bizzarri di altri ma tutti molto credibili, ma mettendoli a confronto con un branco di cinghiali braccati dai cacciatori, uno dei quali riesce a capire la lingua degli umani, e li compatisce nel mentre cerca di difendere, da eroe pellerossa di western alla Kociss, da ultimo apache, la sua tribù dal massacro perpetrato dagli umani…

È il mondo di un Cassola riletto da un Faulkner, mi sono detto. Ma partiamo da Corsignano, l’italico micrcosmo in cui ambienti la tua invenzione…

Corsignano è la mia vera ossessione. Tutto nasce nel 2000, quando ho cominciato a immaginare una storia in questo che è la summa dei paesi della mia infanzia. Io sono nato a Roma, a Monteverde Nuovo, ma mio padre viene da Valiano di Montepulciano, Toscana, e mia madre da Piegaro, Umbria. Mio padre è approdato a Roma negli anni cinquanta ma ha continuato ad avere degli amici nel Senese. Io sono nato nel 1971; e per i primi sei anni della mia vita ho passato metà dell’anno tra i luoghi che poi sono diventati Corsignano e la Roma di cui, tuttora, non posso fare a meno. Diviso in due. Corsignano, tra l’altro, è il nome antico di Pienza; e mi piaceva che in questo universo diffratto (non il nostro: un universo parallelo leggermente discosto da qui), potesse esistere un paese – anche se poi ho spostato lo stesso confine tra Toscana e Umbria – che aveva un nome perduto e non un nome inventato.

Hai bisogno di un territorio, di radicare le tue storie in un ambiente preciso, lo stesso bisogno che avevano gli scrittori di una volta, che hanno inventato luoghi diventati poi mitici, come meriterebbe di diventare anche Corsignano… La cosa curiosa è l’aspetto iper-italiano di questa provincia, un paese dell’umile Italia, l’Italia centrale dei contadini, degli artigiani, e dei principi e del rinascimento, una super Italia. Per questo mi è venuto di pensare a Cassola, a Bassani… anche se poi la tua scrittura è totalmente diversa… C’è insomma un bisogno di radici, anche se dopo uno vola, delira, va dove vuole ma poi sente il bisogno di tornare al borgo, alle radici…

Dopo aver vissuto le mille città di Roma mi interessava quel tipo di borgo. Il fatto di ambientare la mia storia tra il 1999 e il 2000 ha un significato, anche se all’inizio anche a me sembrava casuale, legato più ad altri esperimenti letterari privati… Però: interrogandomi, mi sono accorto che è accaduto per la scelta della data quello che è successo per il luogo… Quel tipo di luogo non ci sarà mai più se non nelle reinvenzioni che mi posso regalare; così com’è stata spazzata via l’idea che possa esserci un futuro che è un èsito lineare di quel passato trascorso… Quel tipo di mondo si portava con sé una serie di personaggi che per me bambino erano assai più intriganti dell’interesse che nutrivo, e continuo a nutrire, per il soprannaturale, per i fantasmi… Quei personaggi avevano ognuno una storia e una caratura che mi piaceva sondare e raccontare…

La mia ossessione per i corsivi e per il cambio di suono del dialogato è perché parto dal presupposto che nessuno di noi ha un tono solo, neanche nel corso di una stessa giornata. Rendere questi suoni sulla carta era una sfida; senza fare nessuno sperimentalismo, dovevo tenere a bada il dèmone della pagina nera, non quello della pagina bianca… L’universo circoscritto di Corsignano serviva perché mi dava un lìmite; e perché, come ti ho detto, non fa esattamente parte di questo nostro mondo intorno. Però. Considera che sono “entrato” a Corsignano nell’estate del 2000 e fino al Cinghiale non ne sono uscito mai, pure se ho prodotto un migliaio di pagine…

Sai come nasce il Cinghiale? Nasce perché Giorgio Vasta mi chiese di scrivere per :duepunti un racconto su un animale; ho cominciato a scrivere e a un certo punto il Cinghiale è entrato a Corsignano; e mi sono detto… non finirà mai, non uscirò mai da Corsignano… E ho continuato a scrivere questo racconto anche dopo che la collana di Giorgio non c’era più… Un giorno mi ha chiamato Nicola Lagioia per chiedermi cosa stessi facendo, e io: “Sto finendo il racconto per Giorgio Vasta”. E lui “Ma quale racconto? La collana è finita! Quante pagine hai scritto?” “185 delle mie” (che, per manie private sono di solito il doppio delle cartelle normali). E lì ho capito che era stato un trucco dell’inconscio: perché io avevo portato Corsignano nel racconto credendo di scrivere un racconto; e invece il Cinghiale s’è portato Corsignano con sé…

Il borgo di Faulkner e l’orso di Faulkner, i due poli della sua letteratura, la comunità come un insieme di persone ognuna con le sue caratteristiche e la natura intorno, ancora minacciosa…

La forza centrifuga è servita a progettare Corsignano; la forza centripeta serve a tenere a bada i personaggi per non farli precipitare in una voragine… In realtà c’è anche molto Amarcord di Fellini in questo romanzo, ma il paradosso è che è l’amarcord di un bambino che racconta il presente che vede. Quando mi sono messo a scrivere il cinghialese è venuto da sé; era all’inizio un gioco vero: ma anche un puntello esterno che mi faceva capire gl’impacci di chi non ha abbastanza materiale linguistico per spiegare le cose che capisce ai suoi fratelli. Il problema del Cinghiale è quello di dover spiegare il linguaggio umano a chi non ha strumenti per capire… Cerca di insegnare una forma di guerriglia solo per preparare al meglio la vita della comunità. Ha una consapevolezza totalmente animale, quasi inconscia: il paradosso, davvero, di una consapevolezza preterintenzionale. La fatica è trovare le parole per raccontare tutto questo a sé stesso… Che poi… Per la prima volta, dopo tanti anni di racconti (a cui tengo, per vari motivi) mi sono trovato per la prima volta a voler bene a un personaggio in modo fisico, ho un trasporto affettivo per un personaggio, lo considero una parte di me. È una forma di narcisismo? In realtà spero di no, perché io lo vedo come fosse esterno.

L’animale rappresenta anche una minaccia, pensa a Gli uccelli di Hitchcock…

Sì, una minaccia. Ma anche una qualche speranza… Una speranza interrogativa… Nella guerriglia tentata da Apperbohr c’è forse anche un’assonanza metaforica sottotraccia con quello che sta succedendo all’umanità… il paradossale rapporto per cui l’1% della popolazione detiene maggior ricchezza del restante 99%… Com’è possibile che miliardi di persone non si mettano d’accordo e dicano che questa forbice è (a dir poco) esageratamente allargata? E poi mi viene anche in mente una considerazione di Vonnegut sugli esseri umani: “solo perché alcuni di noi sanno leggere e scrivere e far di conto, questo non vuol dire che meritiamo di conquistare l’Universo”.

L’ambiente di Corsignano rimanda anche a una tradizione di racconti boccacceschi, e da commedia all’italiana…

Il problema è che la percezione che un paese ha di certi fatti viene ammortizzata, finisce nel dimenticatoio. Penso per esempio alla morte per impiccagione di Davide… mentre altre cose vengono ingigantite, come una qualche storiella d’amore che si perderebbe nei rivoli della città e che diventa invece in un paese materiale narrativo deformato per un secolo…

Succede nel tuo romanzo come nella letteratura di fantascienza americana, quando nella piccola comunità arrivano gli alieni.

Un riferimento assoluto per me è Stephen King, che si è inventato il Maine raccontando gli archetipi del fantastico, dèmoni e presenze oscure: ma collocandoli all’interno di piccole comunità strutturate. Il quotidiano impazzisce per qualcosa che in realtà è sempre stato là, nascosto e presente. Il mio tentativo era mettere storie grottesche e anche “monicelliane”, se vuoi, nel quotidiano. Anche questo è l’eterno, le strutture economiche che ti inchiodano in un ambiente… E allora resta solo il mito, le crociate, i grandi viaggi mai fatti…

La frattura è avvenuta, credo, con la mia generazione (per quello che vuol dire un termine così perentorio). Perché negli anni settanta è avvenuto il passaggio da un mondo analogico a un mondo che non ha ancora capito il digitale… I luoghi dell’infanzia in cui mi rifugiavo rispetto alla Roma dell’infanzia di piombo erano in ritardo… quando si sono uniti si sono frantumati in una cosa che non esisteva, diluendosi nella parvenza di qualcosa d’altro di cui non riusciamo a dare una corretta definizione. Per questo il Cinghiale io lo vivevo come un totem che mi avrebbe protetto, mentre non sono stato in grado di proteggerlo io e lui è diventato ancora più perturbante.

Nella lingua che usi hai il dialetto cioè le radici, la televisione e l’italiano di Scalfari e hai l’animale e la sua alterità.

Vivendo io le cose per grammatiche pensavo che scrivere una nuova grammatica fosse una speranza di contatto tra i due universi; ma alla fine il cinghialese è solo una delle tante parti del romanzo. Il fatto è che il mio Cinghiale non sopravvive a sé stesso. Il paradosso è che non muore mai, per la struttura del romanzo, proprio morendo in quanto cinghiale già dall’inizio…

Delle molte forme in cui si esprime oggi la cultura di massa, mi è piaciuto che non ci fosse il calcio che ormai finisce dappertutto, e che siano invece i tarocchi, il cinema, le canzonette…

Anche se io sono un grande tifoso! Il calcio in realtà compare nel derby strapaesano… in parte ricondotto anche al gioco della palla; a un gioco di piazza… Secondo me tutto dipende da come lo racconti. Libri in cui il calcio diventa un pretesto letterario ce ne sono. Per esempio il libro di Francesca Serafini è un bellissimo romanzo di formazione. Le canzonette… le canzonette sono una memoria collettiva che va dalla semplicità alla poesia per musica, argomenti che mi piacciono molto. Quanto ai tarocchi… l’idea di un linguaggio dei segni mi ha sempre affascinato. Io che non sono credente mi diverto molto con le combinazioni dei tarocchi anche nelle forme della cabala un po’ cialtronesca di Giordano Bruno. Un autore che ho sempre amato per quel suo tentativo di inarcare la frase fino allo sfinimento.

Questa cosa dei tarocchi c’è perché mi è sempre piaciuta l’idea che attraverso le figure si possano raccontare storie; storie che cambiano a partire da uno schema fisso. Io mescolo i tarocchi con le nuove icone che vengono dal cinema. Molto spesso ragiono cinematograficamente, è un’altra ossessione. Da bambino per addormentarmi – meglio: per combattere la paura del buio – mi ripetevo a memoria le battute dei film che amavo; e quei film mi proteggevano, come se le battute inventate in altri universi mi servissero nella vita reale, una forma di sciamanesimo…

Una cosa che mi ha incuriosito è, pensando a Levi, la compresenza dei tempi che secondo lui caratterizzava l’Italia, e quella dei morti e dei viventi secondo Capitini…

Quando ho letto Cent’anni di solitudine, per me non era strana la compresenza dei morti e dei vivi. Dalle mie parti c’è sempre stata l’idea che i morti sono eternamente presenti: e i sogni in cui i morti sono protagonisti sono alla stessa stregua dei fatti narrati. Dire che ho visto mio nonno l’altro ieri perché l’ho sognato è come dire che “il nonno quand’ero bambino mi ha accompagnato a vedere il ghiaccio”. Questa compresenza di morti e vivi fa parte di me da sempre… C’è un momento in cui il cinghiale vuole raccontare la musica ai suoi antenati; non sa come fare eppure ci prova. Volevo che il capitolo deviasse dalla musica verso il fatto che si rende conto che ci sono stati miliardi di cinghiali prima di lui che non avevano consapevolezza del tempo. Parlare con i morti è una cosa che accade continuamente, in letteratura…

Il tuo cinghiale diventa una specie di profeta contadino…

Il mio modo per arrivarci è stato quello di raccontare una finta tragedia greca; cercando di scandirla con i ritmi dell’epica, per far capire quanto fosse grottesca la situazione ma anche quanto solo Apperbohr se ne rendesse conto.

La tragedia del cinghiale come profeta, è quella di essere troppo umano per gli animali, e troppo animale per gli umani, una cerniera che finisce come capro espiatorio degli uni e degli altri…

Lui capisce gli umani ma non può parlarci… dall’inizio mi sono detto “se Apperbohr parla non può mettersi sulla scia di Au hasard Balthazar, si ritrova in quella di Francis il mulo parlante. Il fatto che lui potesse capire ma non potesse comunicare – perché qualsiasi essere umano sente solo dei grugniti – è stata la chiave per cui alla fine penso a Apperbohr come a un impresentabile: un disadattato in entrambi gli ambienti. E la condanna è che se non avesse avuto l’illuminazione probabilmente sarebbe stato meno consapevole ma più felice; benché poi senza la cognizione di cosa è “felicità” e cosa “infelicità”.

Non so spiegarti perché vedendo proprio L’uomo che uccise Liberty Valance capisca delle cose… Posso ripeterti un racconto fatto varie volte parlando del romanzo. Io ho capito che esisteva qualcosa che ancora non chiamavo così ma che poi ho capito essere l’arte-per-me quando, bambino, grazie a Lunedì-Film su Raiuno, vidi un film con Katharine Hepburn, Improvvisamente l’estate scorsa. Forse nel romanzo è finito proprio quel turbamento lì.

Io non amo il corsivo, di cui tu fai invece un grande uso, e però ha un senso, vuol dire accanirsi su una parola…

Ho tentato di differenziare le parole e dare tre o quattro valori diversi al corsivo, insieme a quello normale. Io amo molto Hemingway, ma quando mi metto a scrivere mi sembra sempre che il modo migliore per raccontare sia un altro. Volevo mettere la lingua al servizio della storia perché era l’unico modo per ritrovare la polifonia che avevo in testa; le arcate sintattiche si trovano anche nei vicoli ciechi… i progetti linguistici volevo rimanessero compatti anche se si spezzavano; e quindi dovevo creare discorsi indiretti liberi capaci di filtrare nel parlato spezzettandosi. Nel massimo di presenza ingombrante di Corsignano che parla vedevo il massimo di fuga da me. è come se la lingua fosse le mura di Corsignano. Avevo paura di epigonizzarmi da me; e volevo inventare una lingua che mi desse serenità. Il lettore sa che c’è questa lingua da sùbito, ma io volevo che questa lingua fosse accogliente.

Un’ultima domanda, le date: 1999 e 2000, un continuo avanti e indietro. In un film questo altalenare è comprensibile perché vedibile, nel romanzo è spesso faticoso.

A me serviva per rendere la storia di Apperbohr non lineare. Al lettore volevo dare una serie di informazioni narrative però diffratte, appunto; mi serviva che il tempo che vive Apperbohr fosse scomposto e fatto a pezzi, quasi fosse la metafora esatta di quello che gli capiterà. E per non fare una narrazione lineare dovevo per forza andare avanti e indietro in questo modo qui.

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Flesh for Fantasy. Il romanzo ai tempi di Reddit

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(fonte immagine)

Reddit, sì, bisogna prima provare a spiegare di cosa si tratta, come funziona e poi raccontare di questa storia macabra e strampalata che sta diventando il romanzo più interessante del 2016.

Reddit: The Front Page of Internet – questo il nome completo –  è ormai in rete da undici anni; tra i fondatori c’è stato anche Aaron Swartz. Per provare a darne un’idea si potrebbe dire: immaginate Facebook senza rumore bianco e svuotato di egomania. Pochi esibizionismi a sproposito, niente amici che postano la foto del cocktail che stanno bevendo o il selfie con il calciatore o attore incontrato per strada o nella hall di un albergo a Miami. Su Reddit gli utenti, detti redditors, girano con addosso solo un nickname. Niente foto minuscola a fianco, niente maschio, femmina o età, pochissime informazioni personali, nulle direi. Tra i redditors la tendenza è di parlare nel merito delle cose e basta, stima e rispetto se li guadagnano sul campo in base alla qualità dei loro post, degli interventi fatti e dei contenuti condivisi.

Personalmente, quando sono su Reddit a leggere post e relativi commenti ho l’impressione che il mio cervello si mescoli agli altri, i miei pensieri si amplificano, ronzano, si diramano, si nutrono a vicenda. È come se mi trovassi in testa un megacervello ribollente, denso e complicato – non necessariamente più intelligente di quello che ho –, capace di cogliere e collegare un sacco di linee di interesse, campi d’indagine, opinioni, riflessioni, intuizioni e, inevitabilmente, anche un po’ di pattume mentale.

Si diceva post, commenti e contributi, sì, ma su che cosa? Sostanzialmente su tutto. Reddit è una piattaforma, un canale che contiene altri canali che si chiamano subreddit, creati da uno o più utenti con un interesse comune. Quanti sono questi subreddit? Circa settecentomila, stando a una stima di un anno fa, quelli davvero attivi però mi pare siano seimila. Ne esiste uno per ogni cosa. Sì, anche su quella che vi è venuta in mente in questo istante. Si passa dal porno alla medicina, alla letteratura, all’ingegneria, alla matematica, alla psicologia, alle serie TV, quasi ogni serie TV, fino a toccare interessi marginalissimi, come per esempio Five heads, subreddit dedicato alla bellezza e all’orgoglio di persone dotate di fronte alta e prominente; un altro, True Reddit (stupendo), raccoglie articoli e inchieste di altissima qualità apparsi sui giornali, dagli anni 60 ad oggi. Tutto!

Quando scrivo che esistono subreddit dedicati a ingegneria, o matematica, o porno, non faccio riferimento a un subreddit che si chiama Porn o un altro che si chiama Math, ma al contrario intendo dire che un macro argomento si nebulizza e propaga sotto forma di una intimidente quantità di subreddit dedicati ad aspetti specifici inerenti quell’argomento. E quindi, per restare in tema, ci sono subreddit dedicati alla letteratura, ai romanzi, ai romanzi sci-fi, allo scrivere. Per esempio, c’è un subreddit che si chiama Prose Porn in cui vengono postati con una abbondanza indecente, pornografica appunto, brani di romanzi o racconti ritenuti dagli utenti di bellezza esemplare.

O ci sono subreddit che si chiamano Suggest Me a Book in cui utenti chiedono consigli su libri capaci di continuare una linea di interesse che stanno sviluppando, un percorso culturale ed emotivo; utenti che vogliono approfondire la conoscenza di un autore, di un genere o verso un certo modo di costruire e raccontare storie; su un altro subreddit utenti che vorrebbero fare gli scrittori si scambiano consigli, su un altro ancora, Writing Prompts, un redditor lancia l’idea per una storia e invita gli altri a proseguirla. Questo discorso sulle sotto-categorie inerenti un tema vale per ogni altra cosa. Il cinema, per esempio, il cinema inteso come film visti, ma anche come cinema da fare: luci, set, lenti, telecamere, make-up, montaggio; ce n’è una miriade, anche su biologia, informatica, coding, psicologia, studi letterari, grammatica. Una volta registrato su Reddit, passati trenta giorni, hai diritto di creare il tuo subreddit. Poi sarai tu a dovertene occupare: lo animi, lo curi, lo moderi, lo nutri e magari chiedi ad altri di darti una mano. Molti subreddit diventano niente, restano lì fermi, deserti, piccoli parchi gioco abbandonati in cui echeggiano tracce dell’euforia iniziale. Altri invece diventano punto d’incontro per appassionati di un certo argomento. E quindi, se lo si desidera, si può trovare tutto. E inoltre, non di rado, questo “tutto” è discusso da persone parecchio appassionate e competenti.

Allora, se Facebook è (anche) un modo per mettere in mostra il corpo della nostra esistenza, Reddit è invece l’intelligenza al lavoro, l’onnivora intelligenza di una comunità. Ognuno ovviamente segue i subreddit che più lo interessano costruendosi il proprio palinsesto fatto di informazioni, link e notizie e relativi commenti da parte dei redditors.

Ora, tra questi centinaia di migliaia di subreddit, ce n’è anche uno il cui nome è Mildly Interesting (circa 7 milioni di iscritti), la media di utenti presenti è di tremila. Cosa si può trovate su M.I.? Immagini, notizie e informazioni ritenute, appunto, “moderatamente interessanti” che poi, se ne hanno voglia, gli utenti commentano.

Su Mildly Interesting vengono postate immagini che secondo me hanno un che di lievemente paranoico, paranoia di pura marca americana, espressa con una leggera sfumatura perturbante. È come se tra queste notizie moderatamente interessanti si nascondesse un pattern, un plot, un senso nascosto. A scorrere le foto, a tratti si ha l’impressione di poter intravedere un disegno oscuro, la direzione misteriosa verso cui procede il mondo. Per esempio: su M.I. un utente posta la foto di una serie di cognomi sul citofono di un palazzo che forma una frase compiuta, se letta però in danese; un altro posta la foto del proprio cane e fa notare come l’ombra proiettata dal suo corpo formi la sagoma perfetta di una freccia.

E poi, il 21 aprile, un redditor posta la foto di una vecchia edizione Penguin censurata di 1984, all’epoca pubblicata con due fasce nere in copertina a coprire titolo e autore che, però, tempo e usura hanno consumato lasciando affiorare quel che coprivano: George Orwell, 1984. Ecco, sotto questo post, tra i vari commenti, un utente il cui nick è _9MOTHER9HORSE9EYES9, con i modi spampanati del troll comincia a raccontare del Progetto MKULTRA. Negli anni 50 e 60, scrive, la CIA avrebbe condotto esperimenti per mettere a punto tecniche di controllo mentale da impiegare durante gli interrogatori. Pare somministrasse LSD per lunghi periodi a persone ignare per studiarne gli effetti. Mezz’ora più tardi, alle otto di sera (UTC), su un altro subreddit, sempre lui, _9MOTHER9HORSE9EYES9, commenta ancora, poche righe dedicate all’Hamlet Strategic Plan.

Durante la guerra in Vietnam i governi americano e sud vietnamita costruiscono villaggi per i contadini con lo scopo di sottrarli dalla possibile influenza dei Vietcong. Alcuni di questi villaggi vengono isolati e agli abitanti somministrate massicce dosi di LSD, la loro realtà comincia a slittare, a liquefarsi, mescolarsi,  fino a che spunta una Flesh Interface.

Passa poco più di un’ora e _9MOTHER9HORSE9EYES9 si fa vivo con un un altro commento, questa volta in un subreddit in cui si fa riferimento alla morte di Prince (il giorno in cui questa storia comincia, tanto per aggiungere un tocco di mistero un po’ cheap, è lo stesso della scomparsa di Prince). Il narratore si chiede se le persone uccise da Erzsébet Báthory, scatenatissima serial killer ungherese, non le servissero per creare una interfaccia di carne, già quattrocento anni fa; nel 600 però l’LSD non esisteva; forse, pensa l’autore, alle sue vittime somministrava ergotina,

Per le undici di sera _9MOTHER9HORSE9EYES9 si è lasciato dietro otto commenti a post tra loro completamente scollegati. Poi compare ancora alle tre del mattino del 22 e continua con la sua storia delle interfacce di carne. Cosa racconta? Un incubo sgangherato, raccapricciante e a tratti bellissimo che avviluppa il mondo dalla seconda guerra mondiale a oggi. Dice che l’LSD somministrato per lungo tempo creerebbe mutazioni nella mente e nei corpi dando luogo a Flesh Interface, delle interfacce di carne, aperture fatte da pezzi di corpo umano sotto il mare, sotto terra o verso il cielo, verso un’altra dimensione, verso il divino.

Già dopo i primi interventi la comunità di Reddit rizza le orecchie. La storia, non facile da seguire, è molto avvincente. _9MOTHER9HORSE9EYES9 tra le altre adotta la tecnica del MacGuffin, cioè a dire: racconta in maniera febbrile ma volutamente imprecisa delle Flesh Interfaces suscitando la curiosità dei lettori di sapere, capire esattamente cosa effettivamente siano queste interfacce di carne, ma intanto altre vicende, altri narratori (sedici per il momento) si affacciano, altri luoghi e momenti storici si fanno avanti. (Il MacGuffin è un espediente narrativo che funge da motore fittizio della storia: il pubblico resta in suspense per seguire la vicenda principale – per intenderci: la valigetta di Pulp Fiction – ma di fatto segue la storia secondaria che in realtà è però quella principale).

A questo punto, se avete intuito come funziona Reddit, passa qualche settimana e un gruppetto di redditors crea The Flesh Interface Series, un subreddit che comincia a intercettare e raccogliere i commenti che _9MOTHER9HORSE9EYES9 si lascia dietro; li organizza, cerca di capire quanti sono i narratori, linka i riferimenti storici e discute quelli inventati, fa paragoni con altri autori (ovviamente Lovecraft, e poi Philip K. Dick, Burroughs, Neil Gaiman e King e Cronenberg e David Mitchell), crea un audiobook e un ebook che vengono aggiornati a ogni nuovo intervento dell’autore. E poi, utenti francesi, polacchi, italiani, brasiliani cominciano a tradurre e, in capo a un mese, The Flesh Interface Series si ritrova con seimila iscritti, ne parla il Guardian, Motherboard e qualche giorno fa anche la BBC.

Cosa sono, a cosa servono le interfacce di carne?

Tutto comincia a Treblinka tra 1943 e 44. L’esperimento per la prima volta viene condotto dal medico del campo di concentramento, un certo Dr. Engel (quasi sicuramente l’autore fa riferimento a Josef Mengele). Il Dr. Engel e i suoi aiutanti, tra cui un ebreo, somministrano ai prigionieri quella che chiamano “l’invenzione svizzera”, una sostanza chimica di recente invenzione capace di modificare profondamente il pensiero degli uomini. Dopo un po’ di tempo sotto la baracca in cui vengono condotti gli esperimenti qualcosa di vivo e ripugnante comincia a crescere. Le interfacce di carne, appunto; cavità, come l’interno di una gola o di una vagina, composte da frammenti di corpi umani, una torre di babele fatta di arti e organi, pezzi di corpo ancora vivi e pulsanti nonostante siano staccati dai corpi.

(Alcune delle parti che si svolgono a Treblinka sono bellissime, la lucidità di Grossman senza empatia e strazio, e un senso di orrendo che si dirige a velocità bestiale sulla pelle del lettore). Giusto un dialogo, un brano brevissimo, da me tradotto tra uno dei narratori, Franz Stangl, ufficiale delle SS, e l’aiutante ebreo:

«Gli chiesi della natura di questi esperimenti. Alla mia richiesta si fece più reticente. Gli era stato ordinato di non farne parola con me. Allora, in tutta tranquillità, lo informai che se non me ne avesse parlato gli avrei sparato in faccia. Alle mie parole non mostrò alcun segno di paura, mi guardò invece con un’espressione sfrontata e mi restituì un sorriso, quasi a commiserarmi. Mi disse che i dottori stavano sperimentando una sostanza chimica inventata di recente da uno scienziato svizzero, capace di produrre profondi mutamenti nel pensiero umano .

Volli sapere quali fossero questi cambiamenti. Mi rispose che quella sostanza gli aveva permesso di vedere la mente di Dio. Ovviamente gli chiesi di essere più chiaro. Mi rispose con un sorriso affettato e fece un discorso che aveva a che fare con uno specchio infranto, e poi passò a dire della tela di un ragno. Nessuno dei due esempi aveva per me alcun senso. Gli dissi che ero un uomo concreto e che i discorsi astratti non mi erano gran che utili. Rispose che dopo aver assunto quella sostanza molte volte era entrato in possesso di due menti: la sua e quella di Dio. In tutto ciò che faceva era consapevole delle intenzioni di Dio, dei piani che aveva riguardo la vita umana. Gli chiesi se era in grado di seguire il piano di Dio. Mi rispose che no, non era in grado di farlo interamente.

“Sto lottando con Dio,” mi disse criptico.

“E come si lotta con Dio? Non è forse l’Onnipotente?”

“Quando Dio spinge in avanti devi cedere, altrimenti ti distruggerebbe. Quando cede allora devi spingere avanti.”

“A me questo fa venire più in mente la danza, o il sesso.”  dissi sbuffando.

Sorrise. “Sì, solo che danzare non è così doloroso.”

“Perché lottare? Se Dio è Dio e tu conosci il suo piano perché non limitarsi a seguirlo? Questa sarebbe di certo la scelta più giusta.”

“Sì, ma non ci riesco” rispose.

Per la prima volta quell’espressione tranquilla gli scomparve dal volto e venne rimpiazzata da un’altra, piena di paura e turbamento, che gli fece tremare lo sguardo.

“Il piano di Dio è semplicemente troppo orribile”».

Finita la guerra questi azzardi con l’LSD vengono replicati da vari eserciti, quello americano, quello nord coreano, quello sovietico. Le interfacce di carne creano un passaggio che porta alle Sister-city, luogo di approdo che si trova dall’altra parte, alla fine del viaggio. Chi torna indietro da questo viaggio muore dopo pochi giorni. Più i viaggiatori selezionati sono giovani, più a lungo sopravvivono al ritorno dal viaggio. La CIA quindi comincia a selezionare viaggiatori tra i bambini.

Finché Jingles (“Cominciammo a chiamare i bambini con nomi di cani per spersonalizzali e alleviare così il nostro senso di colpa. Lo facemmo seguendo le raccomandazioni degli psichiatri della CIA, ma non andò molto bene.”), una bambina di otto anni, torna dal viaggio imbozzolata, avviluppata da una placenta intrisa di una sostanza equivalente all’acido lisergico. Le chiedono cosa abbia visto dall’altra parte, lei risponde raccontando cose confuse. Il corpo, nonostante abbia otto anni, si è trasformato in quello di una neonata, una neonata di otto anni. La incalzano e lei risponde: “Venite su queste sabbie d’oro.” E poi muore. Come unto these yellow sands è una citazione dalla Tempesta di Shakespeare.

La tipica caduta di stile dei romanzi di serie B (ma anche C), far citare Shakespeare come ultime parole prima di morire a una bambina appena tornata da un viaggio ultraterreno è una mossa letterariamente goffa, esteticamente imbarazzante, ma tutto questo riscatta, anzi è il segno dell’autenticità del vero romanziere, quello cioè di sparare delle bullshit out of proportion per impressionare gli altri e magari buttarci dentro anche Shakespeare. L’idea è quella del romanziere goffo, parvenu che sbaglia nelle maniere, sbaglia a scegliere la cravatta, ma azzecca tutto il resto.

La storia procede in mille direzioni (Michael Jackson e la sua dipendenza dal Propofol, i Nefilim, l’ingresso di Pompeo nel Sancta Sanctorum dopo la presa di Gerusalemme), l’impressione è quella di leggere un racconto enciclopedico, come se Wikipedia si fosse fatta un acido. La sensazione è anche quella di una libertà indescrivibile.

A me, tornando poi alla cosa che più mi interessa, e cioè la scrittura come espressione di sé, cioè a dire mettere la mano dentro se stessi e, con quello che si riesce a tirare fuori, ardere un fuoco per incantare gli altri; a me, dicevo, leggere queste storie che pasticciano con la Storia mi dà un’idea di cosa poteva essere scrivere una romanzo secoli fa, uno di quelli scritti alla svelta, da invasato, raccontando le bugie più sfacciate e grandi che ti vengono in mente, intrecciarle assieme e accorgersi, verso la fine, di avere combinato una magia ed essere riuscito a mettere piede, a camminare, dentro te stesso, i tuoi sogni, quello che sei, in fondo in fondo. A questo punto è inevitabile fare il nome di Moresco i cui lavori, va detto, conosco molto poco, ma un libro come il bellissimo Gli Incendiati viene in mente mentre si legge l’adorabile sgorbio di _9MOTHER9HORSE9EYES9.

L’ho sentito di persona, Moresco, a uno di quegli incontri col pubblico, dire con occhi ardenti quanto certi romanzieri dell’ottocento (in quella circostanza parlava dell’Uomo che ride di Hugo, io però pensavo a Poe e il suo Gordon Pym) dovessero sentirsi liberi di potere buttare nella loro storia quello che saltava loro in mente e andava a genio. Tutto questo potrebbe essere detto con le parole di David Lynch: “Il film è mio e ci metto tutti i conigli che voglio”.

Per il momento mi fermo qui, se le cose si faranno ancora più interessanti tornerò a farmi vivo. Intanto vi invito a tenere d’occhio questa storia e fare un giro su The Flesh Interface Series e, se non conosceste l’inglese, leggere le parti che un gruppo di utenti italiani ha tradotto, almeno vi fate un’idea.

Grazie a Barbara Setti

Filippo Belacchi lavora tra Fano e Firenze. Ha pubblicato nel 2011 la raccolta Cinque racconti e una resa dei conti (Pequod Italic 2011) e nel 2015 il racconto Desolation Row. Insegna Letteratura Comparata alla Gonzaga University a Firenze. Ha scritto saggi su Vladimir Nabokov, Don DeLillo e Martin Amis.

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L’arte di spaventare: intervista con Jeffery Deaver

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Questa intervista è uscita su Sul Romanzo (fonte immagine).

«Thomas Harris, Stephen King e Jeffery Deaver sono i grandi maestri del thriller», parola di Sandrone Dazieri, uno degli autori contemporanei più interessanti del panorama italiano del romanzo noir/thriller. «Questi tre autori – continua Dazieri – sono da studiare continuamente», possibilmente da vicino. Detto fatto, ho approfittato del Salone Internazionale del Libro di Torino per incontrare Jeffery Deaver, 66enne prolifico scrittore americano che è riuscito a creare alcuni personaggi che di storia in storia (il romanzo seriale Deaver lo scriveva già negli anni ’90) hanno attraversato vent’anni, risultando ancora vividi e necessari per i milioni di lettori che, in ogni angolo del pianeta, attendono il prossimo romanzo di Jeffery Deaver.

Lo incontro nella hall di un hotel nato dal recupero di una porzione del Lingotto di Torino, dove di solito vengono accolti gli ospiti più prestigiosi del Salone: un rincorrersi di cristalli e travi in ghisa, candidi divani dalle forme compatte e poltrone in rattan dalle spalliere fuori misura e dai cuscini color melanzana.  È proprio in una di queste sedute inconsuete, che fanno pensare al setting di Alice nel Paese delle Meraviglie (penso al film di Tim Burton), che mi siedo con Jeffery Deaver, che, da buon americano, riesce subito a creare quel livello di formale confidenza che renderà l’intervista più semplice. Mi chiede della mia mattinata al Salone, si informa su cosa leggo e sulle numerose buste ricolme di libri che mi trascino dietro. Poi in un attimo tutto cambia, i suoi occhi si fissano nei miei, si sistema gli occhiali rettangolari di osso neri, spigolosi, come le ossa delle sua mandibola, che sembrano fare a pugni sotto il sottile strato di pelle che le separa dall’atmosfera. Convenevoli finiti, via all’intervista.

Lei è uno dei pochi scrittori contemporanei che sembra costruire le sue storie come se dovessero essere un ingranaggio perfetto. Leggendo i suoi libri, mi capita di pensare a un meccanico della Ferrari, qualcuno che costruisce un oggetto unico, con una cura per i particolari che in pochi sapranno capire nel dettaglio, ma che tutti apprezzeranno una volta di fronte al risultato finale. Ogni scena, ogni personaggio, ogni aggettivo, tutto fa parte del suo ingranaggio per tenere il lettore avvinto alla sua storia. Così il lettore è convinto che l’unico motivo per cui esiste un romanzo di Jeffery Deaver sia compiacerlo. È proprio così?

Io passo almeno otto mesi a costruire la struttura di un romanzo, otto mesi dedicati esclusivamente a questa attività, cercando di disegnare tutte le scene che compongono il romanzo. Tutto parte da un’idea. Nel caso di The Steel Kiss, l’idea di base era di trasformare oggetti di uso quotidiano in armi. Utilizzo una grande lavagna di sughero dove sistemo su post-it tutte le scene del mio romanzo intorno all’idea di base e le analizzo, le metto in discussione. In questo periodo non scrivo, mi limito a lavorare sulla struttura e poi quando mi sembra che sia pronta, la porto dalla lavagna al pc. La struttura del mio ultimo libro era lunga più di duecento pagine, mentre la costruisco, mi occupo anche dell’attività di ricerca necessaria per rendere il più possibile realistico il flusso degli eventi. Solo alla fine di questa fase, mi siedo e scrivo il vero e proprio romanzo. Mi bastano due mesi, perché a quel punto è tutto chiaro nella mia mente.

Non le è mai capitato di non rispettare questo flusso creativo?

Mai. Se lo facessi rischierei di lavorare per mesi e rendermi conto che una storia non funziona solo dopo aver scritto centinaia di pagine di prosa. Sarebbe molto difficile a quel punto buttare via tutto. Se invece mi metto a lavorare alla struttura del testo, già dopo poche settimane mi rendo conto se l’idea può diventare un romanzo. Tutti possono scrivere una buona prosa, ma una buona prosa non serve a niente. È la storia che fa il romanzo.

The Steel Kiss è il dodicesimo che vede protagonista il detective Lincoln Rhyme, un personaggio che ha creato nel 1997, come protagonista del suo The bone collector (Il collezionista di ossa). Ne Il bacio d’acciaio abbiamo un assassino, un predatore che uccide utilizzando prodotti che usiamo tutti i giorni (scale mobili, ascensori, microonde, ecc.). Chiunque potrebbe essere un suo obiettivo, perché tutti siamo complici di un grande fratello consumistico che ci fa comprare prodotti di cui non abbiamo bisogno devastando il nostro pianeta. Come ha scelto questo tema?

È importante per un libro avere una connessione con la realtà che circonda il lettore. Attenzione però a non scrivere un libro per mandare un messaggio al mondo. Se si vuole mandare un messaggio a qualcuno è meglio usare Western Union, si hanno maggiori probabilità di arrivare a destinazione. Si può però rendere la storia più ricca parlando di un tema che tocca da vicino i lettori, che così si sentiranno parte attiva nel romanzo. Allo stesso modo, un altro tema che è presente nel libro è la privacy e la difficoltà che abbiamo a preservarla. Oggi mettiamo tutti i nostri dati nel cloud, ma sono davvero protetti? Chi può accedervi e come può utilizzare questi dati? Leggevo qualche giorno fa che in America due giovani hackers hanno preso il controllo di un’auto con uno smartphone e l’hanno fatta schiantare. È una di quelle cose spaventose che potrebbero accadere a ognuno di noi ed è importante esserne consapevoli.

Qual è stata la scena più difficile da scrivere ne Il bacio d’acciaio?

Non saprei dire se ne esiste una. Certo le più complesse da scrivere sono come sempre quelle che riguardano le relazioni umane, l’importante è rimanere al di fuori della sfera emozionale del personaggio. Non farsi catturare dalle sue emozioni. Uno scrittore è come un pilota di un aereo. Spesso e senza preavviso si trova a viaggiare in una tempesta. Preferirebbe il sereno, certo, ma è addestrato per volare in qualsiasi condizione e sa di potercela fare, l’importante è che resti il più possibile distaccato. Se iniziasse a pensare che è responsabile della vita o della morte di centinaia di persone, non supererebbe la tempesta. Per lo scrittore è lo stesso, non si deve far coinvolgere dalla storia, così da lasciare tutta l’emozione ai lettori.

Quanto è importante per Jeffery Deaver spaventare il lettore? È consapevole che dopo questo romanzo milioni di persone avranno paura a usare il loro microonde?

Per me è vitale riuscire a spaventare le persone. Io non voglio scrivere libri interessanti, ma avvincenti. Il lettore deve leggere un mio libro in un’unica notte, senza riuscire a staccare gli occhi dalla pagina, anche se vorrebbe, anche se quello che legge lo mette a disaggio, lo spaventa, lo disorienta. Io ho bisogno di un lettore che vuole fuggire dalla mia storia e al contempo non può sottrarsi.

Come fa a creare questa dipendenza?

Uno scrittore deve conoscere il suo pubblico. Deve sapere cosa provano i suoi lettori, come scatenare in loro le emozioni di cui hanno bisogno perché la storia non venga abbandonata.

Lei si è definito uno scrittore di romanzi commerciali. Cosa intende esattamente? Molti autori italiani avrebbero sofferto per una definizione del genere del loro lavoro.

Un romanzo è un prodotto. Non è molto diverso da un buon tavolo, entrambi possono essere fatti da un artigiano o in serie, ma ciò che conta è che trovino un compratore che li usi e che trovi utile usarli. Un romanzo nasce per intrattenere delle persone. Molti scrittori pensano a se stessi come artisti, ma un artista è un artigiano che vuole modificare la percezione della realtà che ha intorno attraverso la sua opera. Vuole che le persone si pongano delle domande, che trovino altri punti di vista. Questo va bene, ma per realizzarlo occorre essere padroni, come tutti i bravi artigiani, delle tecniche giuste. Bisogna che i lettori capiscano cosa lo scrittore vuole dire loro. Umberto Eco era un grande scrittore perché aveva una grande padronanza della lingua e delle tecniche narrative, ma al contempo riusciva a rendere comprensibili ai lettori temi apparentemente molto complessi. Alcuni miei colleghi si siedono alle loro scrivanie, aprono la loro mente e lasciano che i loro pensieri fluiscano non filtrati sulla carta, come se poi toccasse al lettore interpretarli, ma tocca allo scrittore rendere il proprio pensiero accessibile.

So che ama e legge poesia. Come influenza il suo lavoro?

Sì, adoro la poesia. Amo leggere Frost, Pound e soprattutto T. S. Eliot. La poesia insegna la potenza e la consapevolezza della parola. Quando finisco di scrivere i miei romanzi li leggo ad alta voce per vedere se c’è la giusta armonia fra le parole, se le sonorità usate sono quelle giuste per sottolineare l’azione, la sensazione che vorrei provocare nel mio lettore. Userò per esempio un linguaggio e una sonorità diversa in scene d’azione (parole di poche sillabe, paragrafi contratti) rispetto a scene dedicate all’analisi interiore di un personaggio (periodi più lunghi, parole più ariose, con maggiori sfumature).  Questo aiuta il lettore a entrare nel profondo della storia, a percepirne il ritmo, preparandolo a quello che accadrà dopo.

È vero che ha scritto il suo primo romanzo all’età di 11 anni? Lo ha ancora?

Era un racconto in verità. Una storia avventurosa, un paio di capitoli alla James Bond. Ho sempre amato Fleming e il suo agente segreto. Non so che fine abbia fatto il mio testo, ma già allora sapevo che quello sarebbe stato il mio lavoro.

Cosa cerca in un libro come lettore?

Ho bisogno di storie che si muovano velocemente. Devo trovare un senso di conflitto fra i personaggi che mi costringa a pormi delle domande. Voglio un libro onesto, che nasca senza grandi ideali sottostanti, ma con una solida struttura. Mi piacerebbe fosse scritto da chi sia consapevole dell’importanza e della bellezza del linguaggio e sappia metterla in atto. E poi mi piace un finale coerente con la storia, non amo i finali che lasciano in sospeso il lettore, non del tutto.

Lei pubblica un nuovo libro ogni anno, non teme di trovarsi di fronte al blocco dello scrittore. Le è mai successo?

No. Per me scrivere è necessario e mi diverto a farlo. Mi capita spesso nei miei corsi di scrittura che uno studente venga da me e mi dica: “Amo scrivere ma non riesco a trovare il tempo per farlo”. Non diventerà uno scrittore. Chi invece viene da me e mi dice: “Ho problemi perché non riesco a tenere in ordine la mia vita a causa della scrittura”. Ecco questa persona ha ottime chance di diventare uno scrittore, lo è già. Certo, sono consapevole di essere molto fortunato perché io posso scrivere e basta, quindi per me è più facile tenere in ordine il resto della vita.

Pierfrancesco Matarazzo è scrittore, lettore e osservatore curioso delle ossessioni dell’uomo contemporaneo. Si ferma spesso ad ascoltare persone sconosciute che parlano fra loro. Avete presente lo strano personaggio con il taccuino seduto al tavolo vicino al vostro?

Cura diverse rubriche, interviste e articoli per lit-blog e riviste letterarie come Sul Romanzo, Flanerì, minima&moralia e Orlandoesplorazioni.
Ha creato imago2.0, blog per generatori di immaginazione, inventori di storie e lettori onnivori.
È autore di opere di poesia e narrativa: la raccolta di racconti Il Corpo, da cui è stato realizzato un adattamento teatrale, e il romanzo La certezza del dubbio.

L'articolo L’arte di spaventare: intervista con Jeffery Deaver proviene da minima&moralia.

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