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Il futuro, quando càpita

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igdo

La redazione di minima&moralia vi augura un buon anno con un racconto di Giordano Meacci, Il futuro quando càpita. Il racconto è stato scritto in occasione del Premio Città di Ciampino (vinto da Meacci nell’edizione 2016) e successivamente donato alla città, che ci ha gentilmente concesso la pubblicazione.

Per chi ha tredici anni a Ciampino.
Per chi li ha avuti; per chi li avrà.

Abitavo a due passi
dalla pista d’aviazione,
avevo finito d’essere bambino
il giorno prima, a Ciampino.
Vincenzo Cerami

C’è questo giorno d’estate. L’estate tra la terza media e il Quarto Ginnasio. Molto probabilmente è la fine di giugno, perché ancora non sono partito per Piegaro. L’Umbria nominale del paese di mia madre. Ho questo ricordo luminoso, e senzatregua: come il sole che martella le facciate delle case popolari, mentre sudo nella maglietta nera e nei jeans.

E. Se non ricordo male: i primi Levi’s 501. Una memoria imbarazzata di quando ci si lasciava colonizzare senza rimorso da Mr Levi Strauss: tanto noi adolescenti italiani quanto Michael J. Fox. Il Marty McFly di Ritorno al futuro. Che aveva più o meno la nostra stessa età, in quegli anni lontani in cui il futuro: il futuro – e fa quasi paura scriverlo, adesso, così corsivo e minuscolo, se solo mi metto a pensare a quello che significava per me allora – era il 2015. L’anno scorso.

Trent’anni nel futuro.

Ma allora non ero in grado, mentre torniamo al presente di quel ricordo estivo incastonato nella via 2 giugno di parecchi anni fa; mentre siamo ormai all’incrocio e voltiamo a sinistra verso l’entrata dell’IGDO e del campo di calcio in terra battuta ― allora non ero in grado nemmeno di misurarli, trent’anni: non ero in grado di misurarne neppure la metà.

Mi sentivo incredibilmente grande, questo sì: avevo appena finito le scuole medie; l’autunno – lontanissimo, anche lui, quasi irreale, nel caldo irredimibile di quel primo pomeriggio – mi aspettava al Liceo, una quindicina di chilometri più in alto, ad Albano Laziale.

Il greco antico mi sembrava il viàtico primo e necessario alla mia vita adulta di archeologo. Come Indiana Jones. Come Martin Mystère. Già mi vedevo – eccomi: guardàtemi mentro sorrido e supero il cancello di ferro, ingaggio una lotta di polvere con lo stradello che punta al campo sportivo – alle prese con viaggi in giro per il mondo; a scoprire civiltà dimenticate, città perdute. Mi vedevo appagato – e felice, incredibilmente felice – scoprendo i segreti delle lingue più antiche, e balzane, e difficili, e dimenticate. E questo: tutto questo: proiettando il mio presente di allora contro il telo di un futuro lontanissimo che mi avrebbe visto archeologo, e felice, già molto prima dei venticinque anni.

Ecco.

Così pieno di futuro mi ritrovo solo – definitivamente, completamente solo – nel mezzo dell’IGDO.

Il campo vuoto; le porte che si stagliano oziose nella loro sonnolenza scheletrica e scrostata sembrano il rimando stilizzato alle rovine che le sovrastano (e in qualche modo le proteggono da una probabile fine). “Le case bombardate”; le rovine della seconda guerra mondiale lasciate a continuare a morire – la morte di polvere e pietra delle cose – nel centro pieno della città. Quasi fossero l’ombra grigia da tenere cara come mònito, e ricordo; il làscito eterno di tutte le guerre da quando gli uomini hanno imparato a distruggere in un mese, un giorno, una manciata di minuti quello che hanno costruito in anni di fatica e di lavoro. Un memento mori con i tondini arrugginiti a vista che mi porto dentro ancora, dovunque vada; qualsiasi luogo mi trovi ospite momentaneo o affittuario in trànsito dacché sono partito la prima volta da Ciampino per non tornarci più.

(Anche se, visto che la vita non dà spazio alle frasi definitive – tranne che a una – a Ciampino ci sono tornato varie volte, ogni volta per riprendere fiato e ripartire dalle macerie).

Però. Questi sono altri presenti. Il presente di cui parliamo è preciso, datato.

E mi vede da solo, all’IGDO, in un pomeriggio di giugno.

E infatti guardàtemi ancora, mentre m’incammino verso la recinzione che s’appoggia – questo avviene nel ricordo: concedètemi la possibilità dell’errore – a una sorta di bunker di cemento che si apre, in feritoie rettangolari, in una sottospecie blanda di mansarda, sottotetto, soffitta anomala, casa sugli alberi senza alberi. Un rifugio, insomma, a raggiungerlo. Che per molti di noi, talvolta, era il corrispettivo dell’impresa azzardata tascabile o la versione da camera di un’esplorazione pericolosa.

(Definizioni che da qui – da molti anni dopo – potrei comunque continuare a ascrivere, in particolare, alla passeggiate scellerate tra i pavimenti in bìlico del convento bombardato; o ai salti dalla piattaforma in cemento all’entrata del bosco lungolago, nella Castel Gandolfo dei miei sedici anni).

E infatti – in quel caldo, in quel silenzio leggermente ventoso – io mi arrampico (l’altezza è tale da potermi evitare il lusso morboso delle vertigini: dèmone che, da sempre, scompare solo quando mi trovo abbastanza acqua sotto di me) fino al sottotetto. Struscio piano piano sul brecciolino di cemento che lo rende rugoso ai vestiti e mi siedo: con le gambe che spèndolano in tre metri di vuoto, le suole parallele alla linea di fondo del campo.

Continuo a essere solo. E questa vaga impressione di vedetta mi rende più netto lo sguardo – da sempre astigmatico e sghembo, per quel che mi ricordo – lo diluìsce in una nebbia luminosa che avvolge i confini del paesaggio, i palazzi di là dal muretto, gli alberi, la distesa reclusa del campo.

Ed ecco che – limpido, pulito come una palla di neve appena pressata dalla scesa del primo mattino – m’invade il cervello il pensiero che mi assìlla da qualche giorno. Da quando ho ritrovato – e riletto – una leggenda legata al mondo delle fate e ai luoghi che, nel loro regno strampalato, condùcono. Una delle porte del regno delle fairies – usando quel nome irlandese che poi mi sarei ritrovato addosso nel tempo – era (è: stando a chi s’intende di queste cose) ad Arona, sul Lago Maggiore.

Ora, però.

Ed è un avverbio che si riferisce all’illuminazione di allora.

Pare che questa porta si apra tra le rocce una sola volta ogni cento anni. Pare che porti direttamente nel regno delle Fate.

Solo. Una notte passata nel regno delle Fate equivale a cento anni sulla Terra.

In soldoni – mi dicevo, seduto a pochi metri da terra, in un bunker, tra i campi di calcio e le macerie – se anche dovessi trovare la porta – mi dicevo – dovrei comunque decidere se entrare o no.

Pensàteci: ti si spalànca la porta fatata che cerchi: e in un momento – ché questo è il tempo standard delle favole – devi decidere se abbandonare, in un momento e per sempre, i tuoi famigliari, gli amici, il mondo così come lo conosci, il tuo stesso tempo. Tutto per il miraggio scintillante di un mondo sconosciuto e irreale in cui, peraltro, non potrai vivere più di un solo giorno. Più o meno.

In pratica: gettarsi nell’ignoto che ti si offre con la smargiassa, infantile curiosità smaniosa di Peter Venkman quando in Ghostbusters èccita gli amici ad andare sorridendo – e quasi senza speranza – contro una divinità sumera votata alla distruzione del pianeta.

Ecco.

Sentìtelo per un momento, quel caldo. E quel vento.

Pensàtemi sospeso, a riflettere.

E ora. Guardàte lo stupore che mi attraversa il viso da una parte all’altra come una specie di ferita sorridente che mìma il refrain di Here comes the Sun.

Quello è il momento preciso in cui mi rendo conto – sorprendendomi, i peli del braccio che si sollevano in un’ola di elettricità statica come di solito si dice succeda avvicinando un qualche fantasma – che sì, penso proprio di sì, se dovessi essere lì a Arona quando la porta si spalanca: , penso proprio di sì. Se la porta si spalanca, mi dico, io entro.

Per vedere cosa succede.

Mi rendo conto che – se la porta si fosse spalancata proprio in quell’istante, lì, incredibilmente nel bel mezzo silenzioso dell’IGDO – con tutta probabilità io, in quel momento centrato come mai prima di allora, del tutto consapevole del mio corpo nello spazio (e nel tempo), persuaso di essere in qualche modo già grande perché ancora incapace anche solo di prevedere gl’inferni reiterati dell’adolescenza vera in agguato (come chi si pensi depositario della verità per aver letto un solo libro), io, con tutta probabilità, nonostante il rammarico per i miei, gli amici più cari, la donna della mia vita – allora coetanea, naturalmente – che non mi amava (e che comunque non lo sapeva, che io la amavo e che era la donna della mia vita: perché io non avevo mai avuto il coraggio di dirglielo), nonostante tutto questo: mi rendo conto che, una volta aperta la porta―

Io, sì, attraverserei la soglia.

E vìa per cent’anni in un giorno.

Ecco.

Come potete immaginare anche voi.

Almeno letteralmente quel giorno d’estate non s’è aperta nessuna porta sul Regno delle Fate.

In quello che poi fu il futuro io, e Cataldo, e Manfredi – gli amici d’infanzia e di sempre con cui il Giordano che parla, anche solo per la somma di nomi proprî, ha sempre composto una brigata del Boccaccio in gita – organizzammo una puntata ad Aberfoyle, durante il nostro viaggio in Scozia alla fine del Liceo. Il luogo dove è seppellito – almeno, sembra – il reverendo Robert Kirk. Che ha scritto una guida al Regno delle Fate, Il regno segreto. Ma anche lì, nonostante quello che finsero di vedere per mettermi sottoscacco Cataldo e Manfredi, trovai soltanto verde, e alberi, e torrenti, e lepri che si levano dall’erba all’improvviso.

In quello che è stato poi il futuro non sono diventato archeologo come Indiana Jones. E la passione per le lingue antiche e defunte s’è trasformata, anno dopo anno, in una maggiore passione per la lingua viva quando diventa storie da raccontare.

Arona è entrata nella mia vita (e in quella di Francesca, mia sorella extra-anagrafica), prima piano piano; poi tutt’insieme. Quando m’è capitata l’immensa fortuna di incontrare, a Roma, l’uomo che ha reso grande Arona da lontano.

Claudio Caligari.

E se vogliamo dire che Claudio Caligari è stato anche la porta che s’è spalancata nell’universo diffratto del cinema, la fata morgana del tempo― Se vogliamo dirlo come fosse una qualche stramba metafora: facciàmolo pure.

Ma Claudio Caligari non sarebbe d’accordo.

Ecco.

La visione che abbiamo del nostro futuro raramente, davvero di rado coincide alla lettera con il futuro che poi ci si costruisce addosso e intorno mentre viviamo il presente.

È più come accade in un romanzo, mi sa; almeno per come vedo io la scrittura di un romanzo: cominci seguendo un’idea, ti lasci avvolgere e tentare. Poi cambi strada, ti stupisci tu stesso di quello che accade; provi a imbrigliare alcune corse di parole, assecondi una digressione, blocchi uno sproloquio, cancelli quando puoi sperando di non rovinare il periodo. E, se sei fortunato quanto basta, arrivi alla fine delle pagine almeno un po’ soddisfatto di quello che hai scritto.

Ma.

Se parlare di romanzi e di film è quello che è importante per me perché hanno a che fare con quello che sono io. Quello che invece è realmente importante, oggi.

È puntare il dito su quel tredicenne sospeso in aria che, per la prima volta da quando è nato, si trova a essere al centro della sua vita. Lucido, e sereno, e capace di assumersi la responsabilità di quello che desidera nel momento esatto in cui lo desidera.

Sono pochi, nella vita, i momenti così.

Me ne sono capitati tre o quattro, da quell’illuminazione fatata all’IGDO. Tre. O Quattro.

E tutte le volte, a essere sincero, poi hanno avuto a che fare con l’amore.

Quei momenti in cui non puoi essere in nessun luogo e in nessun tempo diverso da quello che stai vivendo: in cui sei realmente, completamente te stesso in un modo che non credevi nemmeno possibile; e sei felice di quello che sei; e di quello che fai. Al centro di te stesso guardandoti insieme da dentro e dall’esterno.

I momenti in cui puoi attraversare una porta che ti fa vivere cent’anni in un giorno senza nessuna paura, o rammarico.

Sono pochi, i momenti così. Tra loro, anche il momento che sceglieresti di portare con te in eterno se il paradiso esistesse davvero e – come insegna un personaggio nato dal genio di Stephen King – se consistesse nell’eterna ripetizione di quel momento in cui sei stato più felice, su questa Terra.

Solo. Devi trovare il modo di saper guardare bene la prima volta che uno di questi momenti accade. Devi avere la fortuna di sentirtelo nascere nel preciso istante in cui ti càpita.

La prima volta in cui hai piena consapevolezza di chi sei, tu, nel mondo. Anche se poi ti accorgi di esserti sbagliato; anche se è un’illusione del tempo, un miraggio casuale, una svista.

La prima assunzione di responsabilità del sentirsi al centro del mondo e insieme la piena consapevolezza di esserne solo una parte.

Ecco.

Quello che posso augurarvi, da qui, dagli anni che si sono accavallati l’uno sull’altro da quel presente antico fino a questo presente qui, appunto.

È che troviate anche voi, da soli, e con quello stupore meravigliato che si ha quando si è perfettamente felici, la forza nitida e luminosa di questi momenti di lucidità. E che siate sempre abbastanza bravi, e fortunati, da riuscire a gestirli – quanti e quali siano non ha importanza – negl’incroci fondamentali della vostra vita – quanti e quali siano, anche questo non ha importanza – perché è proprio da lì, ogni volta – ogni volta – che ricomincia il futuro.

Giordano Meacci (Roma, 1971) ha pubblicato per Rizzoli Fuori i secondi e per minimum fax il reportage Improvviso il Novecento. Pasolini professore (2015) e la raccolta Tutto quello che posso (2005). Un suo racconto è incluso nell’antologia La qualità dell’aria, ripubblicata nel 2015. Il suo primo romanzo, Il Cinghiale che uccise Liberty Valance (minimum fax), è stato finalista al Premio Strega 2016. Con Claudio Caligari e Francesca Serafini ha scritto Non essere cattivo (2015) di Claudio Caligari.

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